GOODYEAR, IL POSTACCIO DELL’ANIMA

10/10/2007 di

C’era una volta la Goodyear, faceva copertoni, dal 1965 al 1999 vi hanno lavorato 12.900 operai.
Quando ha chiuso i lavoratori si sono incatenati per protesta. Ma poi in cinque anni ne sono morti 100.

 
di Mario Bariletto & Filippo Golia *

 

 
La vecchia insegna Goodyear è ancora lì, come una bandiera su una nave
abbandonata. Il piede alato e le otto lettere a caratteri cubitali, di
un blu stinto, sovrastano l’enorme scheletro della fabbrica. Quasi 40
mila metri quadrati di capannone sventrato. Nemmeno un vetro è rimasto
in piedi. Lungo il perimetro, rotoli di filo spinato e reti metalliche.
Fino al 1999, qui, si producevano 18 mila pneumatici l’anno. Unico
stabilimento in Italia del gigante di gomma americano. In questa
fabbrica sono passati 2.900 operai. A cinque anni dalla chiusura degli
impianti, un centinaio di quegli uomini sono morti.


Polmoni, pancreas, stomaco, laringe. Carcinoma uroteliale, fibrosi e
tumore polmonare, linfoma di Hodgkin, melanoma, carcinoma
ademo-squamoso della mucosa bronchiale, dermatofibrosarcoma. Le
cartelle cliniche di chi non c’è più declinano la parola fine in una
serie di varianti terrificanti. Il sospetto è che quegli operai si
siano ammalati e siano morti di lavoro. La Procura della repubblica di
Latina accusa quella che gli operai chiamavano un tempo «mamma
Goodyear». Un’indagine complessa e difficile. Per raccontarla, bisogna
fare un passo indietro.

170 giorni di catene. È il Natale del 1999. Fa freddo. Ai cancelli
della Goodyear decorazioni di catene. Catene dozzinali che significano
«Noi da qui non ci muoviamo», anche se poi si sa come va a finire.
All’inizio solo 10 operai si incatenano. Presto saranno più di 100.
Perché a Natale del 1999 tutto è chiaro. «Mamma Goodyear» ha deciso di
andarsene. Il piede alato riprende il volo, per dove non si sa. A
Cisterna di Latina restano col naso all’insù 1.000 famiglie che da
trent’anni facevano conto sulla fabbrica come fonte di reddito.
L’azienda americana era sbarcata nell’agro pontino nel 1965. Boom
economico, sviluppo per il Sud e soldi dalla cassa del Mezzogiorno,
stipendio fisso, utilitaria, televisore e frigorifero garantiti. Visto
da oltreoceano: una delle aree più depresse d’Europa, con manodopera a
costi accettabili e incentivi dallo Stato.


Per trent’anni la mamma a stelle e strisce mantiene le promesse. La
Goodyear è il motore economico di Cisterna. Chi ci lavora ha lasciato
piccoli pezzi di terra che rendevano poco o imprese artigiane al
fallimento. In alcune famiglie, gli uomini sono tutti nella fabbrica:
padre e figli. Tutto va per il meglio. Anche se, si sa, qualcuno negli
anni si è ammalato, ma capita. Anche se respirare tutto quel fumo forse
farà male. Anche se in quei cilindri per la mescola si sputa l’anima.
Così nell’inverno del 2000 tanti vorrebbero trattenere il gigante che
se ne va. Trattenerlo con le catene, come i lillipuziani con Gulliver.
Per 170 giorni, davanti ai cancelli. Gli operai, le mogli che portano
da mangiare a chi non ha scelto anche lo sciopero della fame. Ed è un
viavai di sindacalisti e politici che fanno promesse. Si organizza
perfino una delegazione che parte per Akron, Ohio, Stati Uniti,
capitanata dal sindaco di Cisterna, con qualcuno che sa due parole
d’inglese. Incontreranno i capi del colosso industriale. Ma la notizia
che tutti attendono non arriva.
Ne arriva un’altra. Prende forma nei foglietti di Agostino Campagna. È
un sindacalista, uno dei più attivi. «Sai che il Grigio è morto?», gli
dicono. Niente picchetti per il Grigio, è l’unico. Tra il 1997 e il
1998, tanti hanno ricevuto la diagnosi dal medico. Ma l’hanno tenuta
per sé. Un segreto di famiglia. In una società ancora parzialmente
agricola, il tumore è una vergogna che non si nomina. Al massimo è il
brutto male. Così, in quell’inverno del 2000, sono in molti a mancare
all’appello davanti alla fabbrica. E ogni tanto qualcuno ferma Agostino
e gli annuncia un altro decesso. Agostino segna. Riempie foglietti. Nel
2001 copia tutto su un’agendina.

Aspettando il brutto male. «Per 20 anni il Primitivo ha sollevato ogni
giorno carichi da 50 chilogrammi l’uno. Battistrada di gomme da
trattori…».
Il libro dei morti è un’agenda della Banca Popolare del Lazio. La
copertina in finta pelle marrone. Cinque pagine scritte fitte. I
deceduti, gli operati, gli ammalati. «Il Primitivo era grandissimo»,
racconta Agostino, «lo chiamavamo così perché aveva la forza di una
bestia. Le mani come due mattoni. Era anche un po’ greve». Sorride.
Poi il reparto ha chiuso. La produzione di gomme da trattori è stata
portata all’estero. Il Primitivo ha avuto il prepensionamento. «È
tornato al suo pezzo di terra, aveva una piccola vigna. Un giorno
qualcuno, in giro per Latina, mi ha detto “Ma lo sai che anche il
Primitivo c’è rimasto fregato?”». Fregato vuol dire cancro ai polmoni.
Anche se lui dice a tutti di avere una pleurite.


Agostino ricorda l’ultima volta che lo ha visto, davanti a una farmacia
dove i figli lo avevano accompagnato a comprare le medicine. Lo ricorda
piccolo, senza capelli. «Ho sentito una vocina sottile che mi chiamava
“A Pann酔. Mi chiamava Pannella per la mia attività sindacale, perché
ho fatto gli scioperi della fame».
Agostino è seduto al bar, una massa di capelli bianchi che sormontano
due sopracciglia nere, solo quando arriva a raccontare di E.M. gli
brilla una lacrima negli occhi. Continua a raccontare. «E.M. era la
nostra memoria storica, quello che ci dava la carica, che ci spronava.
Se bisognava sapere qualcosa della fabbrica, si chiedeva a lui. Se ne è
andato a pezzi. Davvero. Prima gli hanno amputato un piede, poi una
gamba. Poi tutte e due. Io lo andavo a prendere e lo portavo dagli
avvocati. In braccio».
La malattia e la morte di E.M. non hanno nulla a che vedere con il
lavoro alla Goodyear. Un blocco delle arterie dovuto al diabete, con
amputazione delle gambe.
Agostino si ferma. Prende un pacchetto di sigarette. Lo alza. «Dicono
che la sua malattia non c’entra nulla con il lavoro, va bene. Ma qui
sulle sigarette c’è scritto che fumare fa male al sistema
cardiocircolatorio. E tutto il fumo che ha respirato lui in fabbrica,
allora?».

La procura indaga. Il libro dei morti è pieno. La rabbia è cresciuta
durante il lungo picchettaggio dell’inverno 2000. Nel 2001 gli operai
hanno costituito un’associazione. Il presidente è Valerio Bagialemani,
tre morti di cancro in famiglia. Il padre e due zii. Tutti operai della
Goodyear.
Il 13 aprile del 2001, Luigi di Mambro, Michela Luison e Mario
Battisti, i tre avvocati incaricati dall’Associazione ex dipendenti
Goodyear, salgono le scale della Procura con fogli e carte
sottobraccio. Depositano una denuncia collettiva, alla base della quale
stanno i risultati dell’indagine privata svolta dall’associazione. Una
ricerca difficile, fatta di telefonate, incontri, reticenze, paure.
Agostino Campagna e Valerio Bagialemani girano tra Cisterna, Latina,
Anzio. Incontrano gli ex operai, li convincono a uscire allo scoperto,
a unirsi all’associazione, a lottare.
I risultati di quella ricerca sono riassunti in 17 pagine piene di
tabelle, grafici, nomi. L’orrore visivo ha la forma di tanti piccoli
quadratini. Lo stabilimento è diviso in reparti. Ogni operaio deceduto
è un quadratino rosso, ogni ex dipendente operato è un quadratino blu.

 

Bambury: 24 morti, 5 operati. Trafile: 16 morti, 7 operati. Reparto
51.1: 19 morti, 11 operati. Reparto 51.2: 7 morti, 3 operati. Totale:
120 operai morti, 62 operati.
Il pool di avvocati, incaricato dall’associazione, ha analizzato
cartelle cliniche e scremato i casi. Troppo alto il rischio di
allargare il campo di indagine e non ottenere nulla. Meglio puntare sui
casi più sicuri.
Quando i tre avvocati salgono le scale della Procura, quel 13 aprile 2001, nei loro fascicoli ci sono solo dieci nomi.

È l’inizio. Quella che era stata una vicenda industriale prima e una
vicenda umana poi, si trasforma in una vicenda giudiziaria. È il
procedimento n. 11554/01, il caso Goodyear. A indagare è il sostituto
procuratore Gregorio Capasso. A lui il compito di provare che esiste un
nesso causale tra quei decessi e il ciclo di lavorazione della gomma.
Non solo. La Procura deve anche dimostrare che all’interno dello
stabilimento c’era chi sapeva della pericolosità delle sostanze
utilizzate. E che anche negli Stati Uniti, ai vertici della Goodyear,
si conoscevano i rischi. Sotto indagine finiscono nove persone, tra ex
dirigenti ed ex amministratori dell’azienda.
L’inchiesta è complessa: sopralluoghi al vecchio stabilimento,
interrogatori, pubblicazioni scientifiche, testimonianze, produzione di
documenti da parte della Goodyear e degli avvocati. Passa il tempo,
alcuni testimoni si ammalano, altri muoiono durante le indagini
preliminari. Il sostituto procuratore Capasso chiede al gip di far
svolgere una perizia medico-legale e di acquisirla in incidente
probatorio.

Ed è proprio quella perizia a segnare un prima e un dopo nel caso
Goodyear. Almeno fino a oggi. Il 13 giugno del 2003, il giudice per le
indagini preliminari, Giuseppe Cario, incarica due periti, Francesco
Ammaturo e Mariano Bizzarri. Devono dare una base scientifica ai dubbi,
ai sospetti, alle paure. Entro 90 giorni. I due periti prendono tempo,
chiedono documenti e cartelle cliniche agli ospedali, all’Inps,
all’Inail, incontrano operai ammalati, studiano la bibliografia
scientifica sulla materia. Un rimpallo di documenti che rosicchia via
altro tempo. La lista della morte di Agostino, intanto, si aggiorna,
mese dopo mese.

Finalmente, il 5 aprile 2004, sulla perizia medico-legale viene
stampigliato il timbro della cancelleria del Tribunale. L’atto viene
depositato e acquisito come prova. Che cosa raccontano quelle duecento
pagine? La perizia prende in esame 62 casi. Storie professionali di
operai che hanno passato decenni in fabbrica a costruire pneumatici. E
per farlo hanno dovuto mescolare impasti di gomma a caldo, respirare
fumi, solventi, polveri, inalare sostanze tossiche.

L’uomo del belletto. C.F. non amava gli scioperi né le lotte sindacali.
Era l’impiegato modello, aziendalista, serio, scrupoloso. Il ricordo
della figlia Enrica è in bianco e nero. Tornava a casa sporco come il
macchinista di una vaporiera, si chinava sulla sua bambina e diceva
«Quando cresci tu non dovrai comprare il belletto, il nero per il
rimmel te lo dà papà». E si passava il dito sulla faccia sporca. Il
«belletto» di papà, in casa, finiva dovunque. Nelle lenzuola e sui
cuscini. Nei vestiti del resto della famiglia, sulle carte da parati.


C.F. era caposervizio al reparto Banbury. E il Banbury, diceva, «era
come l’inferno». Lì venivano preparate le mescole di gomme naturali,
elastomeri e oli plastificanti. Il primo passo verso i fogli di gomma.
Mani nude, lavorazione a caldo, nuvole di fumo. Ammine aromatiche,
silice amorfa, talco, nerofumo. Chi lavorava al Banbury aveva paura. Lì
si erano ammalati più operai che altrove. Una tosse secca poteva essere
un brutto avvertimento. Una radiografia con una macchia sul polmone la
condanna. C.F. è morto nel 2001.

Sul ciclo di lavorazione della gomma, sulla sua nocività e potenziale
cancerosità, esiste una bibliografia scientifica quasi sterminata. I
primi studi risalgono agli anni ’40 ed è dal 1982 che la International
Agency for Research on Cancer include l’industria della gomma tra le
lavorazioni cancerogene. Secondo la Iarc vi è sufficiente evidenza di
un eccesso di morti per cancro alla vescica e per le leucemie a causa
dell’esposizione alle ammine aromatiche e ai solventi. Sufficiente
evidenza anche per il cancro al polmone e allo stomaco.
Un altro studio, condotto nel 1992, stabilisce addirittura che il fumo
di sigaretta è ininfluente per l’insorgenza di tumori polmonari nei
lavoratori della gomma.

Verso il processo. La perizia acquisita in incidente probatorio per il
caso Goodyear intreccia la letteratura scientifica con la vita in
fabbrica dei 62 operai. Secondo le informazioni diffuse dal comitato
degli ex dipendenti, la relazione dei periti si concluderebbe
riconoscendo la sussistenza del nesso causale in 45 casi, mentre per
gli altri 17 sarebbe escluso per mancanza di documenti o perché quelle
morti rientrano nella «normale statistica epidemiologica della
provincia di Latina». I legali di parte civile sono fiduciosi: «Abbiamo
una grande responsabilità nei confronti delle famiglie delle vittime»,
dice l’avvocato Michela Luison, «faremo di tutto affinché si arrivi a
una sentenza di condanna, con pene adeguate e risarcimento dei danni».
Il 27 ottobre scorso, il sostituto procuratore Gregorio Capasso ha
chiesto il rinvio a giudizio per nove persone, tra ex dirigenti ed ex
amministratori della Goodyear. L’accusa: omicidio colposo plurimo e
lesioni gravissime plurime.


Pantaloni attillati neri, maglione girocollo e occhiali dalla montatura
pesante. Gregorio Capasso sembra voler prendere in giro i suoi 41 anni.
Non parla con i giornalisti. L’unica frase che si lascia sfuggire è:
«Sarà il processo più importante di questo genere in Italia». Nessuno,
a livello nazionale, sembra essersene accorto. L’unico organo di
informazione che si è occupato della vicenda è stato il quotidiano
cattolico Avvenire, con un’inchiesta pubblicata nel febbraio 2002. Poi,
silenzio.

Chi continua a battersi contro la dittatura del silenzio è Agostino. Ha
comperato dei pennarelli e un rotolo di carta da parati lungo dieci
metri. «Ci ho scritto sopra i nomi di tutti quelli che all’udienza non
ci potranno essere. Quasi 200 nomi, tra morti e operati. Lo stenderò
sul marciapiede davanti al Tribunale. Chi passa quel giorno, deve
sapere che cosa sta succedendo là dentro». Racconta del suo piano e
indica il palazzo di epoca fascista sul fondo della piazza. Il suo dito
punta sulla grande scritta a caratteri latini: IVSTITIA.

Oggi Latina aspetta solo l’udienza preliminare, fissata per il 4 maggio
prossimo. Impossibile sapere quale sarà la strategia della difesa.
L’avvocato Corrado De Simone, contattato da Diario due volte, ha
declinato l’incontro.

Quasi come un film. La storia della fabbrica è anche fatta di
migrazioni. Una storia che molti hanno visto al cinema ma che nessuno
ha riconosciuto. Le radici sono in un paesino dell’Abruzzo, che oggi è
vuoto: San Sebastiano dei Martiri, uno dei paesi fantasma d’Italia.
L’emigrazione è iniziata ai primi del Novecento. Tutto andava bene per
lavorare. Francia, Germania, Stati Uniti. Negli anni ‘60, anche
Cisterna di Latina, dove stava aprendo una nuova fabbrica di
pneumatici.

Riccardo Milani ricorda tra i suoi amici almeno quattro famiglie che si
sono spostate da San Sebastiano a Cisterna. Gli operai periodicamente
tornavano a San Sebastiano e qui li ha rincontrati Milani, che di
mestiere fa il regista cinematografico. Gli hanno raccontato di
un’industria dove si rischiava la vita. L’idea di farne un film è degli
anni ’80. Ma si è concretizzata solo nel 2000, quando ha chiuso la
Goodyear. Fuori dai cancelli, oltre all’agenda di Agostino, veniva
scritta, dallo stesso Milani e da Domenico Starnone, anche la
sceneggiatura di Il posto dell’anima. Il film uscirà poi nel 2002, con
attori famosi: Silvio Orlando e Paola Cortellesi a recitare nella parte
degli operai. È ambientato in Abruzzo. La fabbrica prende il nome di
Carair. «Tutte le storie del film sono vere: i licenziamenti, la
mobilitazione, il viaggio degli operai negli Stati Uniti», racconta
Milani , «ma non abbiamo voluto rendere direttamente riconoscibile la
storia. In fondo è avvenuta molte volte, in Italia e all’estero. La
lavorazione della gomma non ha fatto morti solo a Cisterna».

L’ultima beffa. Al momento della chiusura, al capezzale della fabbrica
arrivano in molti. Politici, capitani d’industria. I salvatori. Lo
stabilimento viene rilevato da un’azienda impegnata nella produzione
aeronautica, la Meccano Holding. Promette l’assunzione, dopo corsi di
riqualificazione, agli operai che rinunceranno al trattamento di fine
rapporto, destinandolo alla Meccano. Oggi solo pochi operai hanno
svolto i corsi di riqualificazione. Pochissimi sono stati assunti. Al
vecchio stabilimento della Goodyear tutto è rimasto immobile, dal
giorno della chiusura. La struttura grigia domina l’incrocio tra via
Nettuno e via Reynolds. La trattoria all’angolo non lavora più come una
volta. Tutto sembra immobile, sospeso. Solo le sterpaglie e i mulinelli
di terra e polvere animano la scena. Ma qualcosa, dal giorno della
chiusura, è cambiato nel paesaggio. Sotto il capannone, i piloni di
cemento e le vetrate, non c’è più nulla. Prima, c’erano i macchinari.


Amianto, amianto, amianto. I 44 mila metri quadrati del tetto che
ricopre la fabbrica sono intrisi di amianto. Anche i macchinari, le
presse utilizzate per la lavorazione della gomma avevano al loro
interno lastre di amianto. Lavorazione a caldo, fuoco, necessità di
isolare. Il metallo, riconosciuto dalla comunità scientifica
internazionale come agente cancerogeno, rimane ancora oggi la materia
ignifuga per eccellenza. Quei macchinari, oggi, non ci sono più.
Spariti nel nulla. Portati via. Esportati illegalmente. L’avvocato
Luigi Di Mambro, insieme al collega Luca Petrucci, segue anche questo
troncone della storia, in qualità di legale di parte civile per conto
di Legambiente. «I macchinari non potevano nemmeno essere spostati,
figuriamoci esportati. Prima l’azienda avrebbe dovuto predisporre un
piano di smaltimento e bonifica, di concerto con la Asl, come prevede
la legge sull’amianto».

Il 7 gennaio scorso sono stati citati direttamente a giudizio tre ex
dirigenti italiani della Goodyear. I macchinari sarebbero stati venduti
e commercializzati in Germania, Polonia, Turchia e Francia. Oggi,
probabilmente, quelle presse stanno lavorando a pieno ritmo in altri
stabilimenti, producendo altri pneumatici, contaminando altri operai.

I bambini di via Reynolds. C’è poi un altro e, se possibile, più
drammatico aspetto in tutta la vicenda Goodyear. Un aspetto sul quale
nessuno finora ha denunciato, indagato, cercato la verità, chiesto
giustizia. Troppo difficile. Troppo impegnativo. Troppo duro.


Nelle vie e nelle strade che circondano l’ex stabilimento, negli ultimi
anni, sarebbero nati molti bambini con deformazioni congenite. E anche
tra i figli degli ex operai, alcuni sarebbero affetti da malformazioni.
Li chiamano i bambini di via Reynolds. Li chiamano così quando qualcuno
accetta di parlarne, perché l’intera storia è coperta da una cappa di
silenzio. C’è un uomo che continua a ripetere che esiste una
connessione tra quei bambini e la fabbrica. Si chiama Salvatore
Leonardi, faceva l’operaio e, da quando lo stabilimento ha chiuso, ha
cominciato a studiare tutto il caso. Anche suo figlio è nato con
disabilità. Tetraparesi spastica.

«Tutta la zona è contaminata. Ho fatto querela perché loro se ne
stavano andando senza fare la bonifica. Ho anche trovato dei documenti
in cui si dice che oltre a sostanze cancerogene, nel ciclo di
lavorazione della gomma, vengono utilizzate sostanze mutagene».
Salvatore Leonardi prende fiato e ricomincia a parlare. «Ho insistito
su questa faccenda solo per mio figlio. Ma un perito del Tribunale ha
escluso che ci sia un rapporto di causalità tra la disabilità di mio
figlio e l’ambiente nel quale ho lavorato per anni». Salvatore Leonardi
non si è dato per vinto. Attraverso le associazioni disabili della
provincia di Latina ha cercato un varco in una storia più grande di lui
e della sua famiglia. «Tutti mi dicevano che, sì, era evidente il nesso
di causalità ma che era impossibile da dimostrare». Anche Agostino ha
dato una mano a Salvatore Leonardi. Si è messo a fare una ricerca tra
tutti gli operai, per scoprire quanti di loro avevano avuto figli con
malformazioni.

Ma il nodo di tutta la vicenda è, probabilmente, in via Reynolds, una
strada che costeggia lo stabilimento. Qui abitano molte famiglie con
figli disabili.
La spiegazione di Salvatore Leonardi fa tremare. «Negli anni ‘70, la
Goodyear fece impianti di ventilazione e aerazione dello stabilimento.
I fumi della lavorazione venivano aspirati dall’interno della fabbrica
e risputati fuori, proprio davanti a via Reynolds».

In totale, sarebbero una decina i bambini con malformazioni o
disabilità, tra figli di ex operai e quelli nati nelle adiacenze dello
stabilimento. «Conosco tanta gente che ha figli disabili e che abita in
quella zona», dice l’avvocato Mario Battisti, «ho chiesto al Comune di
Cisterna di fare un’indagine statistica, ma nessuno ha fatto nulla.
Finora è solo una voce, un passaparola. Ma anche l’inchiesta sugli
operai che si ammalavano è nata in questo modo».

La capacità delle sostanze utilizzate nella lavorazione della gomma di
alterare il patrimonio genetico è provata con certezza solo sugli
animali, secondo uno studio britannico del 2001. Ma Salvatore Leonardi
si spinge oltre: «La Pirelli organizzò un convegno nel 1983» , aggiunge
, «e secondo gli atti pubblicati, dai fumi di gomma calda si può
scatenare l’attività teratogena sugli spermatozoi». Theratos, in greco,
significa mostro.

Ipotesi e dubbi non bastano. Servono basi scientifiche. Dal prestigioso
e indipendente istituto di ricerca Ramazzini di Bologna non arriva una
conferma all’ipotesi. La linea telefonica non è disturbata, le parole
del dottor Morando Soffritti suonano chiare. E non fugano i dubbi.
«Certamente il ciclo di lavorazione della gomma contiene sostanze
mutagene, ma questo non significa che ci sia un nesso. Bisognerebbe
fare una seria indagine epidemiologica. Nella zona di Latina non esiste
solo la Goodyear, ci possono essere altre fonti inquinanti o
contaminanti».
L’indagine epidemiologica nessuno l’ha fatta.

Natale 2004. Sugli scaffali di librerie e negozi di dischi va a ruba un
cofanetto di dvd appena pubblicato. Il Live Aid del 1985, voluto
dall’irlandese Bob Geldof per aiutare i bambini africani. Su un unico
palco, centinaia di cantanti famosi per raccogliere fondi. Atmosfera
magica, pubblico elettrizzato, emozioni e musica a fiotti. Ogni tanto,
la telecamera alza lo sguardo. Sul cielo di Londra, il famoso
dirigibile con la scritta blu e il piede alato. (* Diario 04-02-2005)