Una studentessa di Latina in Siria nel monastero fondato da Padre Paolo Dall’Oglio

13/03/2019 di

Sono partita per la Siria il 18 luglio 2018, in piena estate, in pieno caldo afoso, quel caldo che appiccica, ma quel caldo bello e tenero. Sono atterrata in Libano alle 3.00 di mattina e lì c’erano visi familiari che mi aspettavano contentissimi del mio arrivo. Un arrivo che altri non credevano fosse possibile: “Vai in Siria? Un paese distrutto dalla guerra? Ma non hai paura? Perché ci vai? Ma sei pazza?”. Sì, sono andata in Siria, un paese martoriato dalla guerra, ma un paese che, nello stesso tempo, ha il desiderio di rinascere.

Intraprendo un viaggio di studio verso la Siria, il giorno successivo, il 19 luglio. Già mi sentivo a casa, una seconda casa. Un tragitto in macchina durato circa sei ore. Appena passata la frontiera, mi sembrava un sogno diventato realtà: finalmente ero in Siria. Paese, di cui mi sono interessata dall’età di sedici anni, di cui ho voluto sempre studiare con passione la cultura, la cucina e la lingua. Anni fa dicevo a me stessa: “Federica, un giorno andrai e vedrai”. Ed eccomi qui a raccontare l’esperienza più bella, più grande e più forte che mi potesse capitare all’età di ventidue anni.

La mia vera destinazione era il monastero Deir Mar Musa Al-Habashi (a 80 km da Damasco), rifondato da Padre Paolo Dall’Oglio nel 1992. Sono arrivata intorno alle 18.00 ed ero immersa nel silenzio del deserto. Quel silenzio che dà pace. I miei occhi vedono il monastero incastrato nella roccia ed alto 1.200 m. Mi sembrava tutto irreale, non credevo ancora di essere lì. Le montagne mi sembravano carta pesta, finte. Erano talmente meravigliose che sembrava parlassero, che mi dicessero qualcosa. Sì, quel posto ha una voce. Perfino il silenzio fa rumore.

Per arrivare al monastero bisogna salire circa quattrocento scalini ed anche essi parlano, mi parlava tutto. Ogni singola pietra aveva qualcosa da raccontare. Giunta alla meta sono stata ricoperta immediatamente d’amore. Quell’amore che mi ha accompagnato fino alla fine dei due mesi, che ancora oggi e che per tutta la mia vita porterò nel cuore. Ci sono voluti giorni per convincermi che ero veramente lì e che non stavo sognando ad occhi aperti. Mi sentivo a casa.

C’èra Houda, la madre superiora, che si preoccupava, con la sua infinita dolcezza, se stessi sempre bene. C’èra Youssef, il mio caro amico Youssef, che ogni giorno doveva per forza farmi ridere perché se fossi stata triste anche lui, di conseguenza, lo era. C’èra Jihad, che con le sue celebrazione, eri ancor più ricoperta di amore. E poi c’era Aburiad, il quale, ogni giorno mi portava fichi, mandorle o melograno perché sapeva che ne ero innamorata. Una grande famiglia.

E quanti discorsi fatti la notte, nel deserto, con il vento del deserto, con il silenzio, quel silenzio che ti sussurra qualcosa. Non credete che tra montagne e sabbia non ci siano voci. È pieno di voci, di riflessioni che fai tra te e la tua anima interiore. Quel silenzio che dà un scossone al te più profondo.

E quante stelle, miliardi di stelle, che in una città come Roma, non avrei mai visto. Stelle giganti che cadevano dal cielo. Erano stelle comete. Per quanto erano grandi sembravano fuoco.

E poi cosa dire del mattino? Avevo un orologio interiore che mi faceva svegliare all’alba, alle 5.30, ed osservavo, allora, la meraviglia del cielo. Il sole che sorgeva dalle montagne, ogni minuto lo vedevo salire sempre di più. Una mattina mi capitò di vedere la divisione del giorno e della notte: il cielo era a metà, da una parte le stelle e dall’altra il sole.

Mar Musa è un luogo che dà voce ai sentimenti. È un luogo colmo di luce. Quella luce che ti riempie il cuore di gioia smisurata.

E se volevo rifugiarmi completamente andavo nella piccola cappella, totalmente al buio, con una sola candela accesa al centro. Ed era in quel posto che sprofondavi nei pensieri, mescolando emozioni su emozioni.

Più volte nel pomeriggio, insieme ad amici conosciuti nel posto, andavamo a passeggiare tra le montagne e non mi sono mai sentita così libera come in quei momenti. Avevo la sensazione di essere Peter Pan, nell’isola che non c’è. Ero libera di volare. E c’era quel sole così potente che pareva volesse baciarti e abbracciarti.

Mar Musa, in ogni ora del giorno è piena di colori vivi. Amavo attendere la sera con quel rosso e blu del cielo e osservare la luna, che ogni sera aveva una forma diversa.

E tra queste valli di sabbia altro non potevo pensare che alla immensa libertà che si possiede. Questa è la sensazione che mi ha dato e quello che provo in questo momento che sto scrivendo, in un piccolo bar di Rimini, e rivedendo le foto che ho scattato. Mi scende qualche lacrima per il tempo indimenticabile che ho trascorso in questo luogo di luce e per aver conosciuto e apprezzato persone che sanno donare solo amore incommensurabile.

Mar Musa è un ponte costruito nel deserto. Un ponte tra persone di religione diversa. Musulmani e cristiani si incontrano per aprire un dialogo e non per costruire muri giorno dopo giorno. Mar Musa è luogo di ospitalità e di condivisione. Una cara amica conosciuta al monastero mi disse “ non ho mai visto nessuna persona, andata via da qui, che non si è portata con sé qualcosa o che non è cambiata”. Ed è una verità assoluta. Questo luogo ti dà la possibilità di riflettere, di fare scelte nella vita che, probabilmente, in altri posti non sarebbe stato possibile.

Concludo questo scritto con un frammento del film “Treno di notte per Lisbona”, un passo che mi fa pensare molto a questo luogo magico e alle persone conosciute lì e che un giorno,sicuramente, incontrerò di nuovo: “Lasciamo sempre qualcosa di noi, quando ce ne andiamo da un posto: rimaniamo lì; anche una volta andati via e ci sono cose di noi che possiamo ritrovare solo tornando in quei luoghi. Viaggiamo in noi stessi quando andiamo in posti che hanno fatto da cornice alla nostra vita“.