Latina, l’omelia integrale del vescovo Mariano Crociata: Qui siamo tutti immigrati

01/01/2018 di

«Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace» è il titolo dell’omelia del vescovo di Latina Mariano Crociata letta in occasione della tradizionale messa di Capodanno nella cattedrale San Marco.

Il testo integrale dell’omelia del vescovo Mariano Crociata:

“Nel riservare la nostra attenzione alla 51a Giornata della pace e al Messaggio che papa Francesco ha indirizzato per l’occasione, non dimentichiamo che oggi, a otto giorni dal Natale, la Chiesa celebra Maria, la madre di Gesù, invocandola come Madre di Dio, non solo il più antico ma anche il principale titolo mariano, dal momento che tutto quanto possiamo dire di Maria discende dalla sua maternità, che ha reso possibile l’incarnazione del Verbo.

L’inizio del nuovo anno solare, poi, è un invito a riconoscere la preziosità del tempo della nostra vita che scorre inesorabilmente e, a maggior ragione, chiede di essere vissuto bene e intensamente. E la pace è senza dubbio una condizione imprescindibile per vivere bene. Senza di essa tutto è compromesso, il benessere materiale, la salute, la serenità dei rapporti umani, la pratica religiosa, la possibilità di dedicarsi a tutto ciò che eleva la persona e la società.

Quest’anno il tema scelto dal Papa è: Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace. In esso il Papa richiama le cause degli imponenti movimenti migratori che si verificano da alcuni decenni a questa parte, invita ad assumere uno «sguardo contemplativo» per capire ciò che sta avvenendo, suggerisce quelle che chiama «quattro pietre miliari» nell’affrontare il fenomeno, e cioè: accogliere, proteggere, promuovere, integrare. Infine avanza la proposta di due patti internazionali.

Fanno impressione le cifre che il Messaggio riporta: circa 250 milioni di migranti, dei quali 22 milioni e mezzo sono rifugiati: fenomeni di proporzioni enormi. Il Papa non predica una accoglienza priva di criteri e di limiti; invita, invece, i governanti a usare la virtù della prudenza, perché devono aver cura del bene di tutti, a cominciare dai propri cittadini, dei quali «devono assicurare i giusti diritti e lo sviluppo armonico» (n. 1). Osserva che il fenomeno non è destinato ad esaurirsi nel breve periodo e che spesso viene strumentalizzato sfruttando e alimentando paure irrazionali. Ricorda che i migranti in molti casi portano, dove giungono, anche ricchezza umana, professionale e culturale. Infine incoraggia a «spingere le politiche di accoglienza fino al massimo dei “limiti consentiti dal bene comune rettamente inteso”» (n. 3).

Il tema migranti è uno di quelli più difficili da portare a un tavolo di discussione, di questi tempi. Suscita forti reazioni emotive, non solo contro ma anche a favore, impedendo di svolgere una riflessione pacata e oggettiva. Naturalmente, non abbiamo nessun interesse ad alimentare polemiche inutili e a metterci sulla scia del chiacchiericcio di cui sono pieni i mezzi di comunicazione. Non vogliamo in alcun modo dare spazio a una informazione approssimativa o falsa, e nemmeno alla denigrazione o, all’opposto, al vittimismo indulgente. Credo sia nostro interesse cercare di capire il senso di ciò che sta accadendo, per rispondervi in maniera responsabile e adeguata.

La prima riflessione che vi propongo è di carattere storico. Il nostro territorio, sia diocesano che provinciale, è per circa la metà il risultato di ondate cicliche di immigrazione, di differente entità numerica, che durano fino ad oggi. Si comincia negli anni trenta del secolo scorso con i veneti e i friulani e poi con gli emiliano-romagnoli; subito dopo la guerra è la volta dei giuliano-dalmati dell’Istria, a cui risale il Villaggio Trieste, ma anche di popolazione dal Sud della provincia e dal frusinate; negli anni cinquanta e sessanta è la volta di immigrati dalle regioni meridionali, ma anche di quadri e dirigenti dal Settentrione; dagli anni cinquanta a tutti gli ottanta il campo Rossi Longhi accoglie profughi dell’Europa dell’Est, da oltre la cosiddetta Cortina di ferro, e poi anche dall’Estremo Oriente. Al 1970 risale l’ondata di profughi di origine italiana dalla Libia, mentre negli anni Ottanta è la volta dei sikh del Punjab, la cui comunità è diventata la seconda per grandezza in Italia. Quella a cui assistiamo da oltre dieci anni è cronaca di questi giorni.

Per qualcuno può non essere facile riconoscerlo, ma la realtà è che qui siamo tutti degli immigrati. Ciò non significa che bisogna accettare passivamente ciò che accade e che non ci vogliano criteri per affrontare le nuove ondate di immigrazione o che le istituzioni abbiano mancato di dare segnali importanti in tal senso. Significa invece che più che chiudere gli occhi e pensare di alzare steccati e di trincerarsi entro recinti di fronte a ciò che avanza, illudendosi di proteggersi dal cambiamento e di trovare così sicurezza, bisogna affrontare la realtà.

Anche perché, rimuovere i problemi è il modo migliore per farli diventare più grandi di quanto già non siano. Da questo punto di vista, la situazione è paradossale, perché di fatto il nostro è un Paese nel quale l’integrazione sociale, economica e culturale di tanti stranieri, è un fatto non solo pacifico ma benefico e, ciononostante, da molte parti si proietta un fotogramma ormai largamente datato, poiché una Italia solo di italiani non esiste più da tempo, dal momento che con noi vivono quasi cinque milioni di stranieri. Razionalizzare e gestire è la vera esigenza, non esorcizzare e demonizzare.

Non esorcizzare e non demonizzare significa affrontare innanzitutto il nodo psicologico che ci soffoca. Tante nostre paure non sono senza fondamento: la nostra vita è sottoposta a una serie continua di cambiamenti, tutto si fa più precario, le minacce sembrano aumentare, la stessa sicurezza economica traballa anche là dove erano state raggiunte posizioni ritenute stabili, per non parlare delle trasformazioni tecniche e scientifiche a tutti i livelli. Si diffonde un senso di insicurezza che non riusciamo a controllare e ci illudiamo di annullarlo scaricandolo tutto su un capro espiatorio. Ma le risposte semplicistiche sono anche le più ingannevoli e fasulle, perché danno un falso senso di sicurezza, salvo lasciare irrisolti nodi e problemi. Non bisogna credere a quelli che dicono che se non ci fossero stranieri le cose andrebbero meglio; non ci vuol molto a rendersi conto che invece i problemi nel nostro Paese sarebbero ben maggiori, considerati anche solo due aspetti, come la produzione di ricchezza e la natalità. L’unica via da percorrere per vincere la paura e la logica del capro espiatorio è difficile e lunga, ma è quella giusta: capire, cercare insieme soluzioni, superare divisioni, promuovere collaborazioni.

La questione immigrati non può essere affrontata isolandola dalle altre che ci assillano. In particolare nel nostro territorio essa equivale ad affrontare la questione che noi abbiamo con la nostra storia e con la nostra configurazione attuale. Il carattere composito della popolazione pontina presenta sia problemi che potenzialità. Il positivo è evidente nella vitalità che le nostre comunità sono state e sono ancora in grado di esprimere; il difficile sta nel formarsi una identità che è ancora di là da venire, nel creare una narrazione condivisa, una coscienza di appartenenza, un progetto comune che nasca dalla nostra gente e porti a espressione e realizzazione le sue peculiarità e le tipicità di questo territorio. Cercare fuori di noi le cause della mancata riuscita, oltre ad essere alquanto puerile, ha l’effetto di ritardare ulteriormente l’individuazione di soluzioni e l’avvio di percorsi virtuosi.

Se noi non riusciremo a integrarci tra di noi, non sapremo gestire la presenza di nuovi immigrati. Ma se non proveremo ad affrontare la questione immigrazione, vorrà dire che non avremo voluto affrontare il nodo della formazione della nostra identità e non avremo intrapreso per davvero un percorso coerente e unitario di sviluppo non solo socio-economico, ma anche umano e culturale. Può sembrare strano, in un tempo di frammentazione e di dispersione, sentire un appello all’identità e alla cooperazione; la verità è che, anche in un tempo come questo, senza ideali condivisi, senza progetti comuni e volontà di realizzarli insieme, qualsiasi comunità o collettività è destinata all’anomia, alla dispersione e alla decadenza.

 Ci vuole qualcuno che pensi a un progetto di comunità, di città e di territorio, e che coinvolga attorno ad esso persone, passioni, idealità e interessi. Allora ci sarà posto per tutti, anche per i nuovi immigrati che vogliano fermarsi qui da noi.

Come avete ascoltato, non ho messo in campo argomenti religiosi, anche se essi sono alla base e nelle motivazioni del mio dire. Sarebbe facile, peraltro, elencare tutta una serie di riferimenti biblici a supporto del discorso sui migranti. Basti ricordare che il popolo eletto è il prodotto di un lungo e faticosissimo cammino esodale, di emigrazione; basti soprattutto richiamare che Gesù è un emigrato e sarà sempre un itinerante senza patria e senza casa.

Su una cosa, invece, voglio soprattutto insistere e chiudere. La dico con una parola fortemente evocativa: compassione. Che cosa ha fatto il Figlio di Dio venendo al mondo in Gesù? Semplicemente ha sentito compassione nei confronti di un’umanità desolata e smarrita, a cominciare dallo stesso popolo eletto, e ha scelto di venire in aiuto condividendo la nostra condizione, caricando anche lui su di sé le conseguenze di un male e di un peccato che lui aveva subito piuttosto che commesso. Questo è il senso dell’incarnazione; questo è il senso del Natale. Gesù ha abbracciato la nostra sofferenza, senza averne motivo e necessità, ma solo per amore compassionevole e gratuito, volendo aiutarci a sopportare, a combattere e a vincere il male. La compassione, che in Dio è una dimensione della misericordia, è un tratto essenziale e tipico del cristiano: chi vuole essere come Gesù e suo discepolo, cominci con il sentire, come lui, pena e compassione per quanti si trovano nel dolore e nella disperazione.

Non dimentichiamo che Gesù ha detto che quanto fatto a uno che sta male, egli lo prende come fatto a sé personalmente. Ebbene, il sintomo più grave del nostro malessere spirituale, che poi diventa anche disagio sociale e morale, è la perdita della capacità di provare compassione. Le tragedie che vivono gli immigrati sono inaudite e inimmaginabili. La cosa più grave che ci sta capitando è l’indifferenza nella quale cade questa massa incommensurabile di dolore e di disperazione. Da qui bisogna ricominciare, dal recupero della sensibilità umana elementare, dalla capacità di sentire pena e compassione di fronte al dolore indicibile di tanti disperati”.