“Così ho ucciso la contessa Alberica”, risolto il giallo dell’Olgiata

02/04/2011 di

«Voglio togliermi un peso che porto dentro da venti anni: ho ucciso io la contessa Alberica». Una frase detta tutta d’un fiato, poi, per circa un minuto, rotto solo dal pianto, Winston Manuel Reves, è stato in silenzio, lo sguardo immobile e la mente che forse tornava a quella mattina del 10 luglio del 1991, quando spezzò tragicamente l’esistenza della contessa Filo della Torre. È durato circa un’ora il drammatico interrogatorio, sollecitato dallo stesso indagato, durante il quale è arrivata un’ammissione «piena» delle sue responsabilità. In una sala colloqui del carcere di Regina Coeli l’ex domestico di alcune famiglie della Roma bene ha raccontato la sua verità, una verità attesa da circa vent’anni. Il pm Francesca Loy e il capo della sezione omicidi del reparto operativo dei carabinieri, Bruno Bellini, che da tre anni lavoravano per cercare di trovare un colpevole nel giallo dell’Olgiata, hanno ascoltato le parole di Winston. Sul perché‚ del gesto, sul movente che lo ha portato prima a colpire la donna con uno zoccolo e poi a strangolarla, l’uomo non ha dato una spiegazione dettagliata. «Ricordo poco di quel giorno – ha raccontato alla presenza dei suoi legali, gli avvocati Matteo La Marra, Flaminia Caldani e Andrea Guidi – Sono andato alla villa per parlare con la contessa e chiederle di poter tornare a lavorare l: avevo bisogno di soldi e di un lavoro». Nonostante le lacrime e uno stato di forte turbamento emotivo il filippino ha trovato la forza di chiedere «scusa a tutti gli italiani e ai figli della contessa». Per lui il ricordo di quella mattina d’estate di venti anni fa era diventato un vero incubo, una persecuzione che lo ha accompagnato per tutti questi anni. «Quando sentivo parlare della morte della contessa alla televisione, o leggevo articoli sui giornali, venivo preso dall’angoscia», ha proseguito descrivendo il suo senso di colpa. Un legame, quello con la sua vittima, che lo ha addirittura spinto a chiamare una delle sue figlie con il nome della contessa. Chi era presente durante l’interrogatorio-confessione, assicura che Winston al termine sembrava «pentito di quanto commesso» e forse, finalmente, sollevato. Cos come non era avvenuto nei primi giorni di detenzione trascorsi a pregare e a leggere la Bibbia. In pochi giorni, dopo che gli uomini dei Ris hanno individuato un traccia ematica con il suo Dna sul lenzuolo usato per strangolare la Filo della Torre, Winston ha maturato la decisione di parlare. Un colpo di scena per certi versi inatteso, giunto solo poche ore dopo l’udienza di convalida del fermo, durante la quale Winston si era avvalso della facoltà di non rispondere. Alle domande del Gip, Francesco Patrone, il domestico ha preferito tacere. Un silenzio che però si Š spezzato quando il filippino ha chiesto di poter parlare con gli inquirenti, con quelle persone che del caso Olgiata conoscono ogni dettaglio. Alla luce dell’ammissione di colpa il pm chiederà il giudizio immediato. Una scelta che gli inquirenti utilizzano di fronte ad un’evidenza della prova e che consente di saltare l’udienza preliminare. I difensori del filippino dal canto loro, quasi certamente solleciteranno il processo con il rito abbreviato, che consente all’imputato di beneficiare di un terzo di sconto della pena. E Pietro Mattei, il marito della contessa, che con caparbietà aveva chiesto la riapertura delle indagini, emozionato dice: «Oggi è il giorno della rivincita per me e la mia famiglia».

20 ANNI INDIZI E FALSE PISTE: UN COLD CASE DA SPY STORY – Il punto di partenza. E in mezzo vent’anni di misteri, dubbi, false piste. Ed oggi si è tornati al ‘principiò a quello che gli addetti ai lavori, gli investigatori di oggi come di ieri, definiscono i primi orientamenti di una indagine, i primi sospetti, le prime intuizioni. Si, perchè quell’irreprensibile domestico filippino, diventato poi in questi lunghi 20 anni ‘un insostituibile collaboratorè di molte famiglie della Roma bene, era stato subito nella rosa dei primi sospettati di un delitto diventato poi emblema di tutti i gialli della cronaca nera. Manuel Winston Reves fu indagato pochi giorni dopo il delitto della contessa Alberica Filo della Torre e interrogato una notte intera dai carabinieri del reparto operativo di Via In Selci. C’era qualcosa, e oggi questo suona come un triste presagio, nella sua ‘ossequiosa compostezzà che non convinceva gli investigatori, convinti che chi entrò, quella mattina, nella stanza della contessa, doveva essere una persona conosciuta. Una persona che, nel via vai dei preparativi della festa che avrebbe dovuto celebrarsi nella dimora dell’Olgiata quella sera, doveva essere passata inosservata. E per questo gli inquirenti ascoltarono a lungo anche le altre due domestiche filippine di casa Mattei, Violeta e Rupe. Dalle due, gli investigatori dell’Arma hanno inutilmente sperato, con lunghi interrogatori, che arrivassero conferme alle loro ipotesi di lavoro. Ipotesi di lavoro, alcune mai confessate ufficialmente, e poi tanti indizi, nessuna prova decisiva e una grande determinazione a far sì che nell’ epilogo questo caso non richiamasse alla memoria di tutti, come ha sempre fatto, quello di via Poma. Invece gli anni passarono, scivolati via. E la risposta era lì, a portata di mano, dove tutti immaginavano fosse. E nel frattempo, come per via Poma, dove si è arrivati ad una condanna in primo a grado a 24 anni per l’ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, Raniero Busco, o per la scomparsa di Emanuela Orlandi, per anni investigatori, criminologi, scrittori hanno cercato inutilmente di trovare il responsabile. Il delitto della contessa Filo della Torre fu scoperto da una delle due domestiche filippine mentre in casa si trovavano i due figli, Manfredi e Domitilla, che avevano da poco fatto colazione. Pietro Mattei, il marito, invece, era al lavoro. Da quel momento un groviglio di piste coinvolse personaggi di tutti i generi, dal domestico filippino appunto, a Roberto Iacono, figlio dell’insegnante di inglese dei figli della famiglia Mattei. Così come il funzionario dell’allora Sisde Michele Finocchi, amico della coppia, arrivato alla villa subito dopo la scoperta del delitto. Come in tutti i misteri anche il marito della donna fu sfiorato dai sospetti, ma l’indagine dell’allora titolare degli accertamenti, Cesare Martellino, finì per incentrarsi poi su Iacono. Alcune macchie di sangue scoperte dagli investigatori su un pantalone furono analizzate con il test del Dna, ma l’esito fu negativo. Furono fatte anche rogatorie in Svizzera per passare al setaccio i conti correnti della vittima sui quali si ipotizzò che potessero essere passati fondi illeciti del Sisde. Nelle more dell’inchiesta apparve anche un personaggio controverso, Roland Voeller, già testimone nel caso di via Poma. La prima inchiesta sul delitto dell’Olgiata fu archiviata nel giugno del 2005 dal procuratore aggiunto Italo Ormanni. Alla fine del 2006 l’inchiesta fu riaperta dopo un’istanza presentata per conto di Pietro Mattei dall’avvocato Giuseppe Marazzita. I primi accertamenti non portarono a nulla e la Procura di Roma chiese l’archiviazione. Mattei si oppose. Chiese nuove e più accurate perizie. Poi, come se vent’anni non fossero passati, si è tornati indietro nel tempo. Alla pista già intuita. Ad una confessione che avrebbe dovuto entrare in scena in una notte di agosto del 1991.

QUANDO LA VERITA’ E’ SCIENTIFICA: ALCUNI CASI CELEBRI – Indossano tute bianche, sono armati di pennelli speciali e apparecchiature sofisticate, e sono decisi, con l’infallibilità della scienza dalla loro parte, a cercare la soluzione dei più efferati delitti. Quelli la cui soluzione resta «in sonno» per anni, i cosiddetti cold case. Sono i tecnici della scientifica di Polizia e Carabinieri che ormai in tanti siamo abituati a vedere in fortunate serie tv americane, da qualche anno anche made in Italy. Dall’omicidio di Via Poma a quello dell’Olgiata, dalla strage di Capaci al caso Claps, è grazie al lavoro svolto in laboratorio che molti assassini oggi hanno un nome. Omicidi irrisolti che, con l’aiuto delle nuove tecniche, vengono riaperti e in molti casi risolti. E grazie alle nuove tecniche di indagine è arrivata la svolta sull’inchiesta per l’omicidio della contessa Alberica Filo Della Torre avvenuto il 10 luglio 1991 nella sua villa dell’Olgiata, a Roma. Ed è di oggi la confessione di Manuel Winston Reves, domestico filippino, di 41 anni, che all’epoca lavorava presso la villa della contessa, il cui Dna è stato isolato in una macchia di sangue sul lenzuolo che stringeva il collo della contessa.

VIA POMA – Era il 7 agosto del 1990 quando, nell’ufficio dell’Associazione alberghi della gioventù a via Poma a Roma, venne trovato il corpo di Simonetta Cesaroni, 21 anni, trafitto da 29 coltellate. Sotto la lente di ingrandimento degli inquirenti si sono succeduti numerosi personaggi negli anni,come numerose sono state le ipotesi mai però suffragate da prove che inchiodassero il colpevole. Questo fino a quando, grazie ai moderni strumenti di indagine, il Dna dell’ex fidanzato della vittima, fu trovato sul corpetto del reggiseno di Simonetta. Per questo, a gennaio di quest’anno, Raniero Busco è stato condannato a 24 anni di carcere.

CASO CLAPS – Il 17 marzo 2010, nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza, alcuni muratori scoprono il cadavere di Elisa Claps. Misteri e colpi di scena si sono succeduti fino a poche settimane fa quando le indiscrezioni emerse sulla superperizia dei Ris hanno forse definitivamente chiuso il caso, con il rilevamento della ‘prova reginà, il Dna di Danilo Restivo (unico indagato per l’omicidio) sulla maglia che la studentessa potentina indossava il 12 settembre 1993, giorno della sua scomparsa.

OMICIDIO D’ANTONA – Furono un capello e un mozzicone di sigaretta a inchiodare la brigatista Laura Proietti per l’assassinio del giuslavorista Massimo D’Antona avvenuto in via Salaria il 20 maggio 1999. Dalla saliva gli esperti risalirono al Dna della Proietti e lo compararono, ottenendo esito positivo, con il dna tratto da un frammento di capello trovato nel furgone Nissan Vanette utilizzato per l’attentato a D’Antona.

STRAGE DI CAPACI – È proprio grazie alle analisi sul Dna, effettuate sui numerosi mozziconi di sigaretta trovati sulla collina sopra l’autostrada A/29 Trapani-Palermo, che sono stati incastrati gli esecutori della strage di Capaci (Pa). Le prove riconducevano a Mario Santo Di Matteo e Gioacchino La Barbera come artificieri del commando mafioso che – il 23 maggio del 1992 – fece esplodere un’enorme carica di tritolo che uccise il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e 3 agenti della scorta. «Le tecniche di laboratorio – spiega Luigi Ripani, comandante dei Ris di Roma – negli ultimi cinque anni sono notevolmente migliorate e sono maggiormente identificative. Ad esempio, abbiamo bisogno di meno materiale organico, come saliva, sangue o liquido seminale. Prima era necessario un campione grande non meno di una moneta, adesso ne basta un’inezia». Sono i Ris di Roma che si stanno occupando dell’identificazione di alcuni dei 10 cadaveri di vittime dell’eccidio delle Fosse Ardeatine: «Puntiamo – spiega – a dare un nome a cinque di loro».