Trasfusione di sangue infetto, paziente risarcito dopo 46 anni

Aveva 31 anni quando nel 1968 venne trasfuso al Goretti di Latina. Oggi che ne ha 77 dovrebbe essere “felice” di incassare i circa 200mila euro che riceverà dal Ministero della Salute condannato a risarcirlo per non aver controllato le donazioni e le trasfusioni di quel lontano dicembre 1968.
Non è tuttavia la vittoria economica che interessa ad A.P. di Latina visto che, dopo l’infezione quando aveva 31 anni, ha trascorso i restanti 46 anni della sua vita fra sofferenze e disagi personali acuiti quando nel 1997 scopriva di essere stato infettato. Al di là della straziante vicenda personale (e del fatto che era entrato al Goretti di Latina per curarsi e invece è stato contagiato da un virus letale) quella di A.P. è una vicenda giudiziaria che apre le porte a nuovi scenari a favore dei danneggiati da emotrasfusioni.
A parte pochissime sentenze sul territorio nazionale quella di oggi è una novità assoluta perché apre letteralmente le porte al risarcimento a quei pazienti che hanno ricevuto trasfusioni anche prima del cd. “scandalo del sangue infetto” che riguarda i prima anni ’70 fino a metà degli anni ’90. Le trasfusioni degli anni ’60 infatti non erano ancora state contemplate nelle condanne dei giudici come “non controllate” dagli ospedali locali allora a diretta dipendenza dell’Usl e dello Stato (nel caso l’ospedale S.M. Goretti di Latina).
Infatti solo nel 1978 venne scoperto il test per rilevare l’epatite B, nel 1985 quello dell’HIV e nel 1989 quello dell’epatite C e pertanto, in base a questo ragionamento, il S.M. Goretti e per esso in via gerarchica il Ministero della Sanità, non sarebbe responsabile per non aver rilevato (poiché non poteva rilevare) nel 1968 il virus dell’epatite B e C al paziente A.P.
Diversamente è stata accolta la tesi difensiva dell’avvocato Renato Mattarelli a cui A.P si è rivolto e secondo cui il Goretti e il Ministero della Salute non andavano condannati per quello che effettivamente non potevano testare sulla donazione e trasfusione di sangue a A.P. nel 1968 ma su quello che avrebbero comunque fare per evitare o ridurre il contagio; come ad esempio evitare dalla persone a rischio (tossici, prostitute, soggetti a promiscuità sessuale, soggetti epatici, ecc.)
Su questa linea, questo è quanto ha stabilito oggi il Tribunale di Roma (2^ sezione, Giudice Dott. Scalia, con sentenza n. 10448/2014 del 13.05.14) a conclusione di un articolato e difficile processo iniziato dallo studio legale Mattarelli-Mezzini nel 2009 e che ha rischiato, in più fasi, di essere dichiarato prescritto essendo trascorsi quasi 50 anni dalle trasfusioni e quasi 20 dalla scoperta dell’infezione epatica di A.P.
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