Latina e il fardello del nucleare: gli effetti sulla salute, i ritardi e la crisi di Sogin

20/07/2016 di
video-centrale-nucleare-latina

centrale-nucleare-latina-sabotino
Ambiente e salute. “Non solo arsenico, rifiuti e falde inquinate”, sarebbe un titolo appropriato per tratteggiare i recenti sviluppi di tale questione in riferimento a Latina. Dopo le due interrogazioni circa i livelli di arsenico nelle rete idrica e aumento di neoplasie, e una riguardo la contaminazione della falda sotto l’impianto nucleare Sogin arrivate sul tavolo del Ministro dell’Ambiente Gianluca Galetti durante questo primo semestre del 2016, a fare notizia è una nuova istanza parlamentare avanzata alla Camera che stavolta vede come primo firmatario il deputato di Conservatori e Riformisti (Gruppo Misto) Rocco Palese.  L’oggetto dell’interrogazione è una richiesta di chiarimenti su alcuni punti fondamentali della spigolosa vicenda del nucleare: dai ritardi nelle procedure di decommissioning degli impianti fino alla richiesta di maggior trasparenza circa i contrasti interni alla Sogin e la gestione del piano industriale. Con la lente d’ingrandimento posta sulla situazione della centrale di Borgo Sabotino.

Il tema della trasparenza torna, dunque, sul tavolo del governo, dopo le audizioni in commissione d’inchiesta parlamentare sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti dei cittadini di Borgo Montelloe del procuratore Andrea De Gasperis insieme al sostituto procuratore Luigia Spinelli. Il nodo del nucleare, così come appunto quello relativo alla discarica di Borgo Montello, rievoca e riporta alla luce sistematicamente (ed inevitabilmente) i vari quesiti sull’impatto a livello ambientale, e quindi sulla salute della popolazione, in parte affrontati da alcuni studi epidemiologici. Una narrazione i cui intrecci decorrono parallelamente ai vari tasselli decisionali e congiunturali mossi dal MEF e dal cda Sogin.

Sogin centrale nucleare Latina

Una S.p.a. pubblica per lascarsi alle spalle il fardello del nucleare

Siamo nel 1999 quando il decreto Bersani sulla liberalizzazione del mercato elettrico da origine a Sogin. ENEL diveniva una holding formata da diverse società indipendenti, tra cui appunto la S.p.a pubblica interamente partecipata dal Ministero dell’Economia e Finanze, incaricata del decommissioning   (smantellamento e bonifica dei siti e smaltimento  dei rifiuti radioattivi) dei quattro impianti nucleari presenti nel territorio italiano. Il nostro Paese fu il
primo al mondo ad accettare la sfida del cosiddetto decommissioning accelerato, le cui linee guida vennero pubblicate in quell’anno dall’Agenzia Atomica Internazionale. Non più una “custodia protettiva passiva”, che avrebbe significato aspettare un paio il naturale termine del processo di decadimento radioattivo, alla fine del quale si sarebbe potuto procedere con lo smantellamento degli impianti; la nuova strada intrapresa dall’Italia prevedeva il disassemblaggio  delle centrali in tempi più brevi, con un trasferimento del materiale radioattivo in un deposito nazionale tutt’oggi ancora da realizzare, in modo da restituire il cosiddetto  “green field”, un prato verde e senza vincoli radiologici dove prima sorgeva una centrale nucleare o una struttura connessa. Se con il precedente piano il rilascio dei siti era previsto per il 2050, con il nuovo progetto di smaltimento presentato da Sogin nel 2001, si sarebbe concluso l’intero iter procedurale entro 20 anni.

CENTRALE ELETTRO NUCLEARE GARIGLIANOQuasi 1700 metri cubi di rifiuti radioattivi nell’impianto di Borgo Sabotino

Il problema è che tra la presentazione del piano e il rilascio delle principali autorizzazioni per iniziare il decommissioning passano 10 anni: il procedimento di valutazione di impatto ambientale – scandito da una serie di osservazioni e conferenze di servizi – è iniziato nel novembre del 2009 e si è concluso a fine 2011. Il decreto di compatibilità ambientale,  a firma congiunta dei Ministeri dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e dei Beni e le Attività Culturali, andava dunque a sbloccare  le operazioni.

Ad oggi nella centrale di Borgo Sabotino – un impianto Magnox costituito da un reattore di tipo GCR in esercizio dal 1964 al 1987 – è stata completata parte della prima fase di questa procedura, che la Sogin stima di concludere tra il 2023 e il 2027 e che porterà allo smantellamento di una fetta delle infrastrutture e l’abbassamento dell’edificio reattore dagli attuali 50 metri a 30.  Dopodiché si potrà procedere con il trasferimento dei rifiuti  al Deposito Nazionale. Pertanto da qui a circa 10 anni nell’impianto di Latina saranno conservati migliaia di metri cubi di materiale radioattivo. Nel sito sono presenti due depositi temporanei – peri quali sono terminate, nel luglio 2014, le prove e i collaudi dei sistemi ai fini dell’ottenimento della licenza di esercizio  –   a fronte di una capacità netta di stoccaggio complessiva pari a  4200 metri cubi. Dall’ultimo censimento datato dicembre 2014, il volume complessivo dei rifiuti presenti risultava pari 1641 metri cubi, un numero che, con il procedere delle operazioni, è destinato a salire negli anni.

Resta ancora irrisolto in nodo sulla sede del Deposito Unico Nazionale. Latina potrebbe essere tra le candidate, ma da Roma arrivano rassicurazioni

Lo slittamento delle varie operazioni –  nella filiera che parte dal rilascio delle certificazioni da parte degli organi competenti fino ad arrivare alle effettive attività di decommissioning in situ  –  è riconducibile all’assenza di una sede designata per la costruzione del Deposito Nazionale in cui convoglieranno i rifiuti stoccati nei vari impianti.  Nel gennaio 2015, con un ritardo di un anno rispetto a quanto previsto dalla pubblicazione dei criteri di localizzazione, Sogin – che intanto da tempo ha acquisito anche il 60% delle quote di Nucleco, la società che si occupa della gestione di rifiuti derivanti di origine industria e ospedaliera, entrando in un nuovo mercato parallelo – consegna all’ispra la cosiddetta CNAPI, la carta nazionale delle aree potenzialmente idonee ad ospitare la macrostruttura comprensiva di un Parco Tecnologico all’avanguardia, che costerà allo Stato italiano 1,5 miliardi e che verrà finanziata dalla componente tariffaria A2 della bolletta elettrica. I tempi non sono stati rispettati neanche dal Governo, il quale avrebbe dovuto dare il nulla osta per pubblicare tale mappa con relativo progetto preliminare nello scorso agosto, in modo da dare il via alla consultazione pubblica (in merito alla quale Sogin  ha già tra l’altro iniziato la campagna informativa). Ma del documento non si ha ancora traccia e sulle papabili destinazioni scelte da Sogin si mantiene il massimo riserbo;  dalle parti dei dicasteri all’Ambiente e allo Sviluppo Economico si è preferito procedere con cautela, per usare quasi un eufemismo.

Latina possiede una conformazione geomorfologica che sembrerebbe abbastanza complementare ai criteri di individuazione dell’area stabiliti dall’Ispra, quali ad esempio l’assenza di rischio sismico e la mancanza di risorse minerarie nel sottosuolo. Riguardo tale possibilità, che ha suscitato più di qualche apprensione dalle nostre parti, è arrivata la smentita da Claudio Moscardelli nel maggio 2015, quasi alla vigilia di quella che doveva essere la data per la pubblicazione del progetto preliminare.  Il senatore PD ha dichiarato infatti di aver ricevuto dall’amministratore delegato di Sogin delle rassicurazioni circa l’esclusione di Latina dalla lista CNAPI.  Un’ipotesi che parrebbe scongiurata, ma non si escludono colpi di scena.

Un decommissioning accelerato, ma non troppo: l’inerzia operativa, i venti incrociati nei vertici Sogin e i ritardi negli investimenti a Latina

Latina sarà l’ultima centrale a terminare le operazioni; la data in cui si dovrebbe concludere la seconda fase non è ancora certa, ma verosimilmente si parla del 2035, ben 15 anni dopo rispetto a quanto predisposto nel piano risalente al 2001. La centrale pontina sarà l’ultima in Italia ad essere smantellata.

riccardo-casale-soginTuttavia il ping pong di dossier ed autorizzazioni tra amministrazione Sogin, unito alla questione deposito unico, non sembra essere l’unica causa dello slittamento del piano di decommissioning. Di mezzo c’è una crisi interna alla governance di Sogin tra l’amministratore delegato Riccardo Casale e il presidente Giuseppe Zollino, una vicenda scandita da reciproche denunce pubbliche e che ha visto nel 2015 l’ad rassegnare le proprie  dimissioni (poi ritirate) con una lettera al vetriolo al MiSE e al MEF. “Forse si poteva fare di più, ritengo di aver fatto il meglio possibile nelle difficili condizioni date – si legge proprio in quella lettera – I problemi gravi non mancano. La governance societaria, profondamente inadatta, andrà ripensata”. Un assetto societario, secondo Casale, “sfiancato da interminabili e sterili polemiche instillate irresponsabilmente da chi lo presiede”, con comportamenti “completamente privi del minimo senso istituzionale”.

Ed è proprio su questo punto che si inserisce l’interrogazione parlamentare a risposta orale targata Conservatori e Riformisti. “Il ritardo nelle operazioni di decommissioning è da attribuire ai consigli di amministrazione che si sono nel tempo susseguiti, spesso privi di consolidate competenze di gestione industriale – si legge nel testo –  Solo il 23 febbraio 2016 il consiglio di amministrazione della Sogin ha approvato il programma quadriennale 2016-2019 e il budget 2016, con un ritardo di 4 mesi ed il budget 2016 del progetto deposito nazionale con la dichiarata previsione della Pubblicazione della carta delle aree potenzialmente idonee in data 2 marzo 2016, data, a quanto risulta agli interroganti, in contrasto con documenti aziendali antecedenti della stessa Società. Il consiglio di amministrazione di Sogin risulta non essersi mai riunito dal luglio 2015 al 28 ottobre 2015, sebbene l’amministratore delegato, per quanto consta agli interroganti, ne abbia più volte richiesto la convocazione, non comunicando così le linee strategiche del programma quadriennale, non verificando il programma che la società stava costruendo e non valutando il programma quadriennale predisposto nei tempi dovuti”. Non in secondo piano la richiesta di far luce sulle spese del cda. Al centro di tale istanza trova spazio anche la gestione delle operazioni all’interno della centrale di Borgo Sabotino. “Il consiglio di amministrazione, per quanto consta agli interroganti, non avrebbe poi deliberato un importante investimento presso la centrale nucleare di Latina per ben sei mesi, facendo ritardare ancor più le attività sul sito, trattandosi di un investimento fondamentale per procedere con il decommissioning della centrale di Latina, rispondendo ad una prescrizione VIA (valutazione impatto ambientale)”. Insomma una situazione che necessita di una vera e propria sterzata; il termine decommissioning accelerato utilizzato per denominare questa macro -operazione rischia di prendere quasi le sembianze di un tragicomico ossimoro.

Le prescrizioni della procedura di VIA e il monitoraggio degli inquinanti. E poco chiara risulta la vicenda dei pesci deformi nel Moscarello

Con l’autorizzazione di impatto ambientale arrivata nel 2011, Sogin si impegnava a rispettare diverse prescrizioni imposte dal Ministero dell’Ambiente per il sito di Borgo Sabotino: presentazione dei piani operativi per ogni singola attività, stipulazione di un piano fognario per la raccolta della prima e della seconda pioggia, procedere con delle analisi di caratterizzazioni delle acque e del suolo per monitorare la presenza di eventuali agenti inquinanti. L’ultima verifica di ottemperanza è stata eseguita lo scorso 6 maggio ed ha riservato riscontri positivi.

Proprio dale procedure di caratterizzazione avviate nel 2013 sono emersi quei famosi valori di cloruro di vinile (con picchi di oltre 20 volte superiori alla soglia di contaminazione) nella falda sotto la centrale che hanno portato all’ordinanza commissariale dello scorso febbraio del Comune, con la quale veniva vietata l’utilizzo dell’acqua proveniente da pozzi e fonti interni ed esterni al perimetro (entro la distanza di 1 km dal confine di proprietà) dell’impianto. La Sogin ha immediatamente chiarito che il cloruro di vinile è un analita estraneo al ciclo produttivo della centrale. E anche che tali valori nella falda non sono riferibili all’attività di smantellamento, versione più che verosimile. Perché spendere milioni  per lo stoccaggio del materiale radioattivo, per poi  trasgredire sulle procedure di smaltimento di un materiale con costi enormemente minori (ndr. il cloruro di vinile è un prodotto di degradazione di alcuni tipi di plastiche)?

Quel che è certo è che l’ipotesi di una continuità nella contaminazione con la discarica di Borgo Montello deve essere scartata, visto che la falda sottostante il sito è in continuità con il fiume Astura, mentre la falda sotto la centrale nucleare con il Moscarello, tratto terminale del Canale delle Acque Alte. Due bacini idrografici differenti. Andrebbe, comunque, approfondita la questione in merito alla qualità delle acque del Moscarello, dove pare sia stata rinvenuta una percentuale significativa di pesci deformi.

La mancanza di informazioni certe sugli inquinanti emessi dall’impianto e sulle modalità di contaminazione delle matrici aria, acqua e suolo costituisce un’importante limitazione a questo tipo di indagine. Informazioni che invece sono più definite per l’area della centrale del Garigliano – in relazione alla quale la Procura di Santa Maria Capua Avetere ha aperto un’inchiesta, che coinvolge la Sogin, per disastro ambientale – e sono tutt’altro che confortanti. Monitoraggi hanno rivelato cobalto 60 e cesio 137 nel tratto di mare tra Ischia e il Circeo (in particolare nel Golfo di Gaeta); isotopi radioattivi che, stando alla certificazione dell’ISS, provenivano dall’impianto al confine tra le province di Latina e Caserta. Fino ad ora non sono state rinvenute sostanze simili nell’area della centrale di Borgo Sabotino che, tuttavia, secondo la versione di Legambiente Lazio, è oggetto di numerosi eventi anormali riconducibili al malfunzionamento delle apparecchiature.

Nucleare e impatto sulla salute: a Latina diversi eccessi per quanto riguarda tumori radiosensibili. Ma secondo l’ISS e il DEP Lazio non sarebbero causati dalle radiazioni provenienti dalla centrale

Tuttavia l’aspetto maggiormente critico a livello di impatto sulla salute umana è quello dell’esposizione a radiazioni ionizzanti. L’OMS ha stipulato una monografia con tutte le patologie tumorali sufficientemente e limitatamente associate a tale fattore di rischio. E tra di queste ci sono alcune per le quali si riscontrano degli eccessi rispetto alla media regionale sia in riferimento al comune di Latina che all’intera provincia.

Lo studio più recente in materia, in base a dati del trentennio 1980-2008 è stato elaborato dall’Istituto Superiore di Sanità nel 2015 e posto sul Tavolo di coordinamento sulle attività di indagine epidemiologica nelle aree interessate dalla precedente generazione nucleare  presso la Conferenza Stato-Città ed autonomie locali. Una ricerca che ha evidenziato nei 20 km circostanti alla centrale di Latina degli eccessi in termini di mortalità per patologie tumorali con evidenza sufficiente di associazione, in particolar modo per quanto riguarda tumore al polmone, esofago e rene. Allarmanti sono i dati relativi alla popolazione infantile in cui spiccano neoplasie all’encefalo e al sistema nervoso centrale. Ma secondo il gruppo di studio “gli eccessi di mortalità tumorali osservati non possono essere direttamente attribuibili , se non in piccola parte, all’esposizione della popolazione a dosi di radiazioni ionizzanti causati da rilasci di radioattività dagli impianti nucleari, in quanto le dosi che possono causare effetti osservabili in termini di incremento di mortalità avrebbero potuto essere prodotti solo da un continuo e rilevante funzionamento anomalo degli impianti”. Volendo fare una stima a livello quantitativo, 1 mSv/y di dose media annua; si calcola che individui sottoposti a rilascio di radiazioni da impianti nucleari (attivi o fasi di dismissione) in condizioni normali di funzionamento siano esposti ad una dosa media annua di quattro ordini di grandezza inferiore.

Tale studio ha rappresentato una descrizione dello stato di salute della popolazioni risiedente in aree limitrofi agli impianti nucleari e non è sufficiente ad effettuare alcuna correlazione tra gli eccessi e i difetti di mortalità osservati e le esposizioni dei componenti di tali popolazioni alle radiazioni ionizzanti. Questo perché, come si legge nel rapporto, “nonostante le attività di monitoraggio svolte in ottemperanza delle normative in materia, non sono disponibili dati su tali esposizioni a livello individuale e per l’intero periodo di interesse”.

Un’analisi maggiormente dettagliata sul situazione a Latina venne pubblicata nel 2011 dal Dipartimento di Epidemiologia del Lazio.  Si tratta di uno screening della popolazione risiedente entro i 7 km dalla centrale basato su dati 1996-2006 forniti dal Registro Tumori di Latina, che andava a valutare, oltre ai tassi di mortalità, anche quelli di incidenza. Dai risultati emersi si riscontra per gli uomini un eccesso di mortalità per tumori allo stomaco e malattie cardiovascolari rispetto ai numeri della provincia. Per le donne invece sembrerebbe preoccupante il dato relativo all’incidenza della totalità dei tumori radiosensibili, in particolare quello alla tiroide che mostra percentuali superiori al 50% rispetto alla media provinciale. Senza dimenticare che la provincia di Latina presenta di per sé tassi enormemente più elevati rispetto alla media Paese per questo tipo di patologia tumorale, le cui associazioni sono state ampiamente dimostrate grazie a studi su Chernobyl e Fukushima.  Secondo l’ipotesi avanzata dal team di ricerca del DEP, questi valori di incidenza per il cancro alla tiroide sarebbero dettati da un “maggior accertamento diagnostico” che spesso ha portato a classificare casi di neoplasie di piccole dimensioni come tumori veri e propri.

Al netto dei risultati,anche  l’agenzia del Servizio Sanitario Regionale ritiene che non ci sia una correlazione tra esposizione e alcuni preoccupanti dati sulle neoplasie tumorali radiosensibili. C’è da dire che un’associazione del genere è anche difficile da delineare, dal momento che si tratta di patologie i cui rischi di contrazione sono influenzati da una molteplicità di fattori.

I nodi da sciogliere

Sia l’ISS che il DEP, nonostante parlino di assenza di una relazione causale, consigliano un monitoraggio costante riguardo i dati epidemiologici.  Siamo davvero sicuri che, preso atto dei dati in base ai quali alcuni dei cosiddetti tumori radiosensibili sono tra i più frequenti nel territorio pontino (dove sono presenti ben due centrali nucleari), il rischio esposizione sia praticamente inesistente? I nodi da sciogliere in riferimento alla questione nucleare a Latina sono parecchi: dal tema della salute fino ad arrivare alla gestione del decomissioning, in termini di tempistiche e di costi. Sbloccare questa situazione di impasse è l’obiettivo primario, soprattutto per Latina, che rischia di pagare più di altri lo scotto dei continui tergiversamenti attribuibili sia ai vertici Sogin che ai vari organi statali chiamati a dettare le linee guida e a fungere da garante. Affinchè il fardello del nucleare non si trasformi in un vero e proprio incubo.

  1. Complimenti, di rado su giornali online si leggono articoli così professionali e approfonditi.