Chernobyl, scatti dall’inferno: il libro

22/04/2011 di

«Tutto intorno a noi è foresta. La selva che stiamo attraversando nelle immediate vicinanze della centrale è chiamata Red Forest: era una pineta grande come una media città, situata nell’area compresa in un raggio di dieci chilometri del sito nucleare di Chernobyl. In seguito all’incidente subì un fallout radioattivo, fino a 4,81 GBq/m, che la fece dapprima virare verso il colore rosso. Quindi morire. Tuttavia, grazie all’assenza umana l’area della foresta rossa è oggi diventata una vera e propria oasi ecologica e un rifugio unico per la fauna selvatica».

Così racconta «Chernobyl. Scatti dall’inferno» di Massimiliano Squillace, il volume di foto pubblicato dalla Infinito edizioni, con la prefazione di Filippo Penati, l’introduzione di Mario Pillon e la postfazione di Andrea Satta. «Stiamo tagliando per un deserto, un rigoglioso deserto verde. Un’enorme e tranquilla campagna dove la natura è esplosa negli anni. Ogni tanto incrociamo una strada, un piccolo paese. Le vie sono vuote, i vetri rotti, le case abbandonate. Tutto intorno a noi è disseminato di cartelli nell’erba che indicano un’elevata presenza di radiazioni». Il racconto sembra il diario di viaggio in un ‘dopoguerra nuclearè. Decine di splendide foto e un testo scritto con uno stile rapido e asciutto, quasi radiofonico, documentano che cosa è rimasto di Chernobyl cinque lustri dopo quell’1,26 minuti della notte del 26 aprile 1986, quando esplose la centrale lanciando nell’atmosfera venti milioni di Curie di materiali radioattivi. La nube tossica raggiunse prima i Paesi scandinavi, poi il resto dell’Europa, con il governo ucraino che comunicò solo con colpevole ritardo l’immane tragedia verificatasi a Pripyat, dove vivevano circa cinquantamila persone. Squillace è nato a Milano nel 1977, vive tra Londra e Milano ed è considerato tra i pionieri del web italiano. Le sue immagini sono spettrali, tutte in bianco e nero; immortalano gli interni delle scuole, delle aziende, ciò che resta di una bambola tra i detriti, una piscina di epoca sovietica, ambienti devastati. E il «mostro» sembra essere ancora lì. «È quello che – come racconta Satta – ha portato via Taras, di sedici anni, con un tumore».