IL BRASILE CONCEDE LO STATUS DI RIFUGIATO POLITICO A CESARE BATTISTI

14/01/2009 di

Il Brasile ha concesso lo status di rifugiato politico a Cesare Battisti, originario di Latina, ex militante dei Proletari Armati per il Comunismo condannato all’ergastolo in Italia per quattro omicidi tra il 1977 e il 1979, la cui estradizione era stata chiesta tempo fa dall’Italia a Brasilia. Battisti, 52 anni, si trova agli arresti in un carcere della capitale brasiliana dal marzo dell’anno scorso.

«È tradizione del Brasile considerare di concedere lo status di rifugiato politico ogni volta che riteniamo che esiste un fondato timore di persecuzione politica contro un cittadino», ha spiegato Pedro Abromovay, segretario agli affari legislativi del ministero della giustizia. L’annuncio è arrivato tramite un comunicato diffuso nella notte dal ministro della Giustizia, Tarso Genro, che si è così pronunciato in modo opposto a quanto deciso dal Conare (Comitato Nazionale per i Rifugiati), che nel novembre scorso aveva respinto per tre voti contro due la richiesta di asilo politico formulata da Battisti. La nota ricorda che la decisione riguardante «lo scrittore italiano Cesare Battisti» è stata presa sulla base «dello statuto dei rifugiati del 1951 e della legge 9.474 del 1997», che prevedono quali ragioni valide per la concessione dello status di rifugiato «il fondato timore di persecuzione per motivi di razza… o di opinione politica». La nota segnala tra l’altro che Battisti è stato condannato solo dopo la sua fuga in Francia nel 1981, sulla base di accuse non fondate su prove certe, ma della testimonianza del pentito Pietro Mutti. Qualche giorno fa, in un’intervista al settimanale brasiliano Epoca, Battisti aveva detto di essere sicuro di «finire morto» nel caso di un rientro in Italia, dichiarandosi «certo che se tornassi, finirei vittima di una vendetta. Nel 2004 ho sofferto in Brasile – aveva precisato – un tentativo di sequestro da parte dei servizi segreti paralleli italiani». In dichiarazioni apparse ieri sul quotidiano Estado de S.Paulo, Genro aveva ricordato che stava «cercando informazioni sul tipo di punizione che hanno sofferto gli apparati illegali di repressione che agirono in Italia in quel periodo, e che erano legati alla mafia e alla Cia. Devo conoscere questo perchè, se questi apparati sono ancora intatti, c’è un rischio per Battisti». Genro aveva subito dopo aggiunto che nel caso di un sospetto fondato che una persona possa soffrire qualsiasi tipo di persecuzione in patria in relazione a fatti collegati alla propria azione politica, «questa persona deve essere considerata rifugiata». Il ministro ha informato della sua decisione nella tarda serata di ieri il presidente Luis Inacio Lula da Silva, hanno ricordato gli on-line brasiliani subito dopo la pubblicazione della nota, precisando che «la concessione di tale status non passa dalla Presidenza della Repubblica», ed è pertanto «responsabilità del ministero della Giustizia». Ora, ricordano i media, il Tribunale supremo federale del Brasile (Stf) dovrà archiviare la richiesta di estradizione avanzata da Roma.

 4 OMICIDI E L’ERGASTOLO PER LO SCRITTORE NOIR

Un maresciallo degli agenti di custodia di Udine; un gioielliere milanese e un macellaio mestrino iscritto all’Msi che in comune avevano soltanto l’aver sparato ad un rapinatore; un agente della Digos di Milano: sono le vittime per le quali la giustizia italiana ha condannato all’ergastolo Cesare Battisti, l’ex militante dei Proletari Armati per il Comunismo (Pac) a cui il Brasile ha concesso lo status di rifugiato politico contro la richiesta di estradizione dell’Italia.

A Rio de Janeiro Battisti fuggì nel 2004, poco prima del pronunciamento definitivo del Consiglio di Stato francese che l’avrebbe estradato in Italia da Parigi, città dove l’ex militante dei Pac, così come altri terroristi coperti dallo ‘scudò della dottrina Mitterand, si era rifatto una vita come affermato scrittore noir. L’arresto in Brasile, nel marzo del 2007, mette fine alla sua latitanza. Le vittime di Battisti tra loro non si conoscevano, unite nel destino da un terrorismo che in quegli anni lasciava morti sulle strade ad un ritmo impressionante.

Andrea Santoro fu il primo a cadere sotto i colpi dei Pac. A 52 anni viveva una vita tranquilla con la moglie e i tre figli, a Udine, dove comandava con il grado di maresciallo il carcere di via Spalato. Il 6 giugno del ’78, quando lo uccisero, non era ancora passato un mese dal ritrovamento del cadavere di Aldo Moro in via Caetani e l’Italia era ancora sotto choc. Lo attesero sotto il carcere e quando arrivò lo freddarono con una pistola militare. A sparare, secondo gli inquirenti furono proprio Battisti e una complice, con la quale si scambiò false carezze fino al momento di colpire. I due, fu ricostruito poi, fecero perdere le loro tracce confondendosi tra i turisti: a bordo di una ‘2 cavallì con tanto di gommone sul tetto, si allontanarono verso Grado. Per i Pac quello fu il battesimo del fuoco. E il ’79 ne fu il triste prosieguo: tre omicidi, due a Milano e uno ancora nel nord est, a Mestre. Il 16 febbraio la prima, duplice azione: a Milano fu ucciso il gioielliere Pierluigi Torregiani; a Mestre il macellaio Lino Sabbadin. Nella rivendicazione fu scritto che «era stata posta fine» alla loro «squallida esistenza». Il gioielliere e il macellaio avevano in comune una cosa: spararono e uccisero un rapinatore. E per questo furono puniti; una vendetta insomma. Torregiani fu ammazzato poco prima delle 16, davanti alla sua gioielleria nel rione Bovisa. Gli spararono mentre usciva dal negozio assieme al figlio: il gioielliere fece in tempo ad estrarre la pistola e a far fuoco, ma non a salvarsi. Suo figlio, poco più che adolescente, invece si salvò. Ma fu ferito alla spina dorsale e rimase paralizzato. Due ore dopo, alle 18 fu la volta di Lino Sabbadin. Due giovani entrarono nella sua macelleria a Santa Maria di Sala e gli spararono con una calibro 6,35. La colpa di Sabbadin era quella di aver ucciso un rapinatore che due mesi prima era entrato nella macelleria. Il ’79 dei Pac non era ancora finito: il 19 aprile fu la volta di Andrea Campagna, agente della Digos milanese, uno ‘sbirrò. Uno sconosciuto si avvicinò al poliziotto appena 25/enne in via Modica, nel quartiere della Barona, e sparò. Cinque colpi di pistola calibro 375 magnum lo colpirono nella zona sinistra del torace, in corrispondenza del cuore. Per lui non ci fu nulla da fare. Poco dopo una telefonata al ‘Secolo XIX’ e a ‘Vità rivendicò l’omicidio a nome dei Proletari Armati per il comunismo.