Infarti e mortalità eccessiva, chiesti accertamenti sulla clinica città di Aprilia

03/10/2013 di
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Una mortalità per infarto miocardico acuto, a 30 giorni dal ricovero, troppo bassa o molto elevata, poco compatibile con le caratteristiche della patologia e i dati del resto d’Italia.

Tanto da far sospettare diagnosi “truccate”, al ribasso o al rialzo, da parte di 33 strutture, fra ospedali e case di cura convenzionate tra cui la clinica Città di Aprilia, per motivi d’immagine o di convenienza economica. Sulla base dei dati che non tornano, raccolti nel Programma nazionale esiti 2013, l’Agenas (l’agenzia per i servizi sanitari regionali) ha chiesto alle Regioni di far partire i controlli.

In una lettera ufficiale agli assessori regionali, a firma del direttore scientifico del Programma nazionale esiti, Carlo Perucci, l’Agenas annuncia che segnalerà «alcune situazioni meritevoli di verifica e approfondimento, a partire dalla qualità dei dati. La prima priorità individuata è l’indicatore ‘Infarto miocardico acuto (Ima): mortalità a trenta giorni dal ricoverò».

«Sono state segnalate – continua la lettera – strutture con una mortalità post Ima estremamente bassa o molto elevata, in qualche caso difficilmente compatibile con le caratteristiche della storia natura della patologia, per le quali deve essere esclusa, innanzitutto, l’ipotesi di ridotta validità della diagnosi, anche considerando l’eventualità di codifiche opportunistiche associate alla effettuazione di procedure». In pratica. va verificata la veridicità delle diagnosi, per valutare quanto corrispondono ai dati reali ed escludere che siano state modificate: al ribasso, per non danneggiare l’immagine della struttura, o al rialzo, se sono stati eseguiti troppi interventi di altro tipo, magari più remunerativi come per esempio le angioplastiche, poi fatti passare per infarti.

Queste le strutture con una mortalità per infarto miocardico acuto, a 30 giorni dal ricovero, «estremamente bassa», molto al di sotto del 9,98% di media italiana: ospedale di Mondovì (Cuneo) 2,83%; ospedale di Circolo A. Manzoni di Lecco 3,63%; casa di cura Mater Domini a Castellanza (Varese) 3,46%; presidio ospedaliero di San Donà di Piave (Venezia) 2,68%; azienda ospedaliera Sma di Sacile (Pordenone) 1,68%; ospedale Padre Antero Micone di Sestri Ponente (Genova) 2,27%; Stabilimento San Bartolomeo di Sarzana (Spezia) 3,04%; ospedale Ramazzini di Carpi (Modena) 3,79%; ospedale Sant’Andrea di Massa Marittima (Grosseto) 3,92%; Madre Giuseppina Vannini a Roma 3,57%; Clinica Mediterranea Spa (Napoli) 2,48%; ospedale San Camillo de Lellis di Manfredonia (Foggia) 3,87%; Casa di cura Città di Lecce 3,39%; presidio ospedaliero Sacro Cuore di Gesù a Lecce con 0,89%; presidio ospedaliero San Francesco di Paola (Cosenza) 3,08%; presidio ospedaliero Vittorio Emanuele II di Castelvetrano (Trapani) 2,86%.

Queste, invece, le strutture con mortalità «molto elevata», sempre a fonte di un 9,98% di media italiana: ospedale Sant’Antonio di Padova 23,93%; azienda ospedaliera Sma di Pordenone ben 41,37%; ospedali Riuniti della Val di Chiana (Siena) 24,08%; presidio ospedaliero Umberto I di Ancona 19,01%; casa di cura Città di Aprilia (Latina) 17,12%; Casa di cura Sant’Anna di Pomezia 17,82%; ospedale San Giovanni Evangelista di Tivoli (Roma) 17,66%; presidio ospedaliero Vasto S.Pio da Pietrelcina 21,38%; ospedale San Salvatore dell’Aquila 18,57%; ospedale G. Vietri-Larino (Campobasso) 17,16%; clinica San Michele (Caserta) 18,54%; stabilimento ospedale di Venere (Bari) 26,15%; presidio ospedaliero Santa Maria degli ungheresi (Reggio Calabria) 18,71%; azienda ospedaliera universitaria G. Martino a Messina 20,55%; presidio
ospedaliero Umberto I di Siracusa 17,76%; presidio ospedaliero San Giovanni di Dio di Agrigento 18,12%.