La storia di Coriolano Caprara, il prigioniero di guerra che costruì una chiesa in Gran Bretagna

12/02/2020 di

Coriolano Caprara, per gli amici Gino, compie 100 anni, parla un inglese fluente, e mantiene una fitta corrispondenza con amici all’estero. Ma l’ultima e unica volta che ha vissuto nel Regno Unito è stato oltre settant’anni fa, come prigioniero di guerra, portato in giro da un capo all’altro del Paese. Eppure, è stata proprio questa vicenda a procurargli alcune delle amicizie più forti e durature della sua vita, quasi tutte con persone che si trovavano dall’altro lato del filo spinato.

Coriolano arriva in Scozia dopo un viaggio durato tre mesi, dalla Libia dove è stato catturato nel 1941, circumnavigando tutta l’Africa. Viene registrato per la prima volta ad Edimburgo e riceve una divisa, con tre cerchi sulle spalle a indicare il suo status di prigioniero di guerra. Coriolano non lo sa, ma il motivo che porta sul vestito non è casuale. Serve a farsi sparare più facilmente nel caso decidesse di scappare.

Viene destinato alle Orcadi. Lì il paesaggio è per metà quello di un’isola deserta, per metà in costante fermento, con gru, difese antiaeree, navi da guerra. A Coriolano sembra che metà dell’arcipelago sia impegnato a costruire una nuova isola, e l’altra metà a difenderne la costruzione. E non va tanto lontano dalla verità.

In quel momento infatti il governo britannico stava facendo costruire le “Barriere di Churchill” per proteggere la baia di Scapa, che ospitava la flotta britannica.

Coriolano era là perché il governo britannico aveva sempre più difficoltà a trovare operai che lavorassero ai ritmi richiesti per il completamento delle barriere e nelle spesso tremende condizioni meteorologiche dell’arcipelago, spazzato dai venti del Mare del Nord. Decise così di destinarvi 600 delle migliaia di prigionieri italiani catturati durante la campagna del Nord Africa all’inizio della guerra, e tra questi Coriolano, che venne così assegnato al Camp 34, isola di Burray. Da lontano riusciva a vedere l’altro campo, sempre destinato agli italiani: Camp 60, su Lamb Holm. Era più fortunato: aveva intorno a sé coltivazioni, qualche casa. Lamb Holm è poco più di uno scoglio, il campo di prigionia l’unica costruzione al tempo.

Coriolano venne assegnato al lavoro nel campo, ma a molti non andò bene come a lui: mentre lui studiava inglese, puliva il campo e prepara piccoli pezzi di teatro per intrattenere i prigionieri, gli altri andavano in cava. Sentiva i loro racconti, li vedeva là vicino mentre scavano i blocchi, li trasportavano lungo la banchina che si andavano formando ogni giorno tra un’isola e l’altra. Quando capirono di stare lavorando a difese militari, entrarono in uno sciopero che risolsero solo settimane di negoziazioni.

Ciononostante, giorno dopo giorno, Coriolano vedeva Lamb Holm e Burray avvicinarsi sempre di più, come a toccarsi. Sembrava quasi che un campo di italiani cercasse di raggiungere l’altro.

All’arrivo della prima primavera la vita al Camp 60 migliorò. In quell’arcipelago isolato da tutto, italiani e britannici sembravano aver dimenticato di trovarsi su versanti opposti della guerra.

Coriolano ormai parlava bene inglese, ed aveva delle uscite libere. Aveva conosciuto una famiglia delle Orcadi, i Wylie, che lo avevano invitato per cena. Una magnifica serata: «Please, come again», gli avevano detto. Coriolano non voleva essere inopportuno e non tornò. Dopo pochi giorni, li ritrovò davanti al cancello del campo:

«Qual è il tuo problema? Perché ci hai dato buca? Non ti hanno educato?»

«Non volevo essere invadente…»

«Non essere ridicolo. Vieni subito a cena con noi».

Un suo compagno di campo chiese se poteva usare una bicicletta di alcuni contadini, ormai distrutta, la risistemò completamente e andava così girando per l’isola tagliando i capelli agli abitanti. Un altro costruiva accendini, un altro giocattoli con gli avanzi di legno e lamiera e li vende. E così molti altri, che divennero sempre più amici degli abitanti delle Orcadi. Il fascino che questi giovani italiani, mediterranei, temprati dagli imprevisti, esercitavano su una popolazione isolata dalla guerra da anni era notevole. Mentre l’aurora boreale si faceva sempre più rara, nelle notti che si accorciavano nascevano storie d’amore, scappatelle nella primavera che addolciva il clima delle isole. Il freddo contava poco però, l’importante era non farsi scoprire.

I due campi iniziarono a costruire ognuno una cappella. Quella del Camp 34 era bella, ma Coriolano sentì che quella del Camp 60 era già eccezionale. Un artigiano, Domenico Chiocchetti, ci stava lavorando a tempo pieno. Aveva iniziato con una statua di San Giorgio e il drago che raccontasse la guerra e i prigionieri delle Orcadi: ha ancora il suo dinamismo barocco, e un anima in cemento e filo spinato. Sotto, Chiocchetti mise una bottiglia con tutti i nomi degli italiani nei campi, incluso quello di Coriolano.

Riuscì a vederla nelle occasioni in cui andava nell’altro campo, come durante lo Sports Day, in cui i militari britannici sfidarono i prigionieri italiani. La prima impressione fu però di delusione: la facciata era ancora da fare, e sembrava un Nissen Hut come quello dove dormivano, solo forse più lungo.

Entrando, rimase senza parole.

Nel 1943, l’armistizio rimescolò le carte in tavola, e fece andar via molti italiani dalle Orcadi, tra cui Coriolano. Chiocchetti chiese invece di restare, perchè potesse completare la sua cappella. A quel tempo mancava ancora la facciata, un piccolo campanile e il battistero, che stava costruendo con cemento e la sospensione di un camion. Sta ancora lì, la molla lo fa rimbalzare leggermente ma la spirale è molto bella.

Giuseppe Palumbi, compagno e amico di Chiocchetti, stava invece finendo i lavori in ferro battuto, ed aveva ancora meno fretta di tornare rispetto a lui. Aveva infatti una moglie che lo aspettava in Italia, ma l’amore della propria vita lì, alle Orcadi. Sapeva che, quando se ne sarebbe andato, tutto quello che avrebbe potuto conservare di lei sarebbe stato il ricordo dei suoi occhi, e una fotografia.

Coriolano passò gli ultimi due anni nel Lancashire, dove però godette di grande libertà: veniva pagato in moneta corrente per il suo lavoro, poteva uscire liberamente durante il giorno, conoscendo molti degli abitanti del paese dove stava la base della RAF dove lavorava. L’amicizia con alcuni divenne così salda che l’organista della chiesa suonò al suo matrimonio, anni dopo il rientro in Italia; andò a trovare e vennero a trovarlo i suoi amici inglesi quasi ogni anno, per decenni.

Impiegò però oltre quarant’anni per tornare alle Orcadi perché, come molti reduci, credeva che tutto fosse stato distrutto. La Cappella era invece stata preservata: scoprì per caso da un articolo su un giornale che Chiocchetti era rimasto lì oltre la fine della guerra e la chiusura del campo per completarla, dipingere il rosso e il bianco della facciata, il piccolo campanile che era rimasto silenzioso e senza campana per tutta la durata della sua permanenza. Quando i campi vennero sgombrati e restituiti ai proprietari delle isole, una volta completate le barriere, la Cappella del Camp 34 venne abbattuta. Nessuno entrò e scoprì le decorazioni fatte da Pennisi, l’altro artista degli italiani prigionieri. Un ufficiale vide però la facciata bianca e rossa al Camp 60, e fermò tutto. Non osò toccarla, e da quel momento fece di tutto per salvarla. Chiocchetti gli fu grato per tutta la vita: rimase così tanto affezionato alla cappella, da tornarci fin quando la salute glielo permise per vederla e restaurarla.

Coriolano andò così a visitare le Orcadi una, due, quattro volte, ritrovando reduci, compagni e amici. E ascoltando i loro ricordi e i piccoli segreti, come quello di Palumbi, il fabbro della Cappella Italiana.

A lui infatti rimasero nel cuore le Orcadi come forse a nessun altro, per via della donna che dovette abbandonare. Tornato in Italia alla fine nel ’45, quando non gli era più possibile procrastinare, Palumbi mostrò la foto della sua amata delle isole alla moglie. Lei, come era prevedibile, la bruciò. Lui mantenne però dentro di sé l’amore per questa donna proibita e distante per anni, tanto da chiedere alla figlia, in grande confidenza, di chiamare la nipote come lei. Il più grande segreto lo donò però proprio alla Cappella Italiana.

Entrando nella Cappella e andando fino all’altare, sapeva infatti che tutti si sarebbero concentrati sugli splendidi affreschi di Chiocchetti in alto. Palumbi disse invece alla sua amata di prendere il cancelletto in ferro che aveva fatto lui stesso, e di guardare in basso. Chiudendolo, lei avrebbe visto le due estremità unirsi e formare un cuore.

Lo stesso che Giuseppe Palumbi lasciò alle Orcadi, nella primavera del 1945.