CONDANNA GOOGLE, IL GIUDICE: SERVE UNA LEGGE PER IL WEB

12/04/2010 di

Internet rappresenta «un formidabile strumento di comunicazione tra le persone». Ma non può diventare una «prateria sconfinata dove tutto è permesso e niente può essere vietato pena la scomunica mondiale del popolo del web».


Anche perché «non c’è peggior dittatura di quella esercitata in nome della libertà assoluta: ‘legum servi esse debemus, ut liberi esse possumus’ dicevano gli antichi e, nonostante il tempo trascorso, non si è arrivati a scoprire una definizione migliore».

In 108 pagine di motivazioni, il giudice milanese Oscar Magi spiega perchè, nel febbraio scorso, ha ritenuto colpevoli e ha condannato a sei mesi (con pena sospesa) tre manager e cioè David Carl Drummond, ex presidente del cda di Google Italy ora senior vice presidente, George De Los Reyes, ex membro del cda di Google Italy ora in pensione, e Peter Fleischer, responsabile delle strategie per la privacy per l’Europa di Google Inc per violazione della legge sulla privacy. Una condanna inflitta per un video, trasmesso in ‘retè nel 2006, in cui un giovane minorenne autistico veniva vessato dai compagni di classe. I tre, insieme ad un quarto manager, erano stati invce assolti dall’accusa di diffamazione.

Il video venne girato a fine maggio 2006 e caricato su Google l’8 settembre. Restò online due mesi, fino al 7 novembre, prima di essere rimosso, dopo aver totalizzato 5.500 contatti. Contatti che rappresentano per il motore di ricerca un profitto, quello che alla fine ha reso possibile la condanna emessa ai tre dirigenti.

Nei motivi, il giudice milanese respinge tutte le accuse ricevute dopo la lettura della sua sentenza e spiega che «la condanna del webmaster in ordine al reato di illecito trattamento dei dati personali, non viene qui ricostruita sulla base di un obbligo preventivo di controllo sui dati immessi, ma sulla base di un profilo valutativo differente che è quello di un insufficiente e colpevole comunicazione degli obblighi di legge nei confronti degli uploaders per fini di profitto».

E ancora. «Il decreto legislativo sulla privacy (legge attualmente vigente in Italia) -spiega ancora- ‘coprè in modo legislativamente completo i comportamenti di chi si trovi nella situazione di ‘maneggiarè dati sensibili e quindi non può essere trascurato nel momento in cui se ne appalesi la possibilità di intervento. la distinzione tra content provider e service provider è sicuramente significativa ma, allo stato e in carenza di una normativa specifica in materia, non può costituire l’unico parametro di riferimento ai fini della costruzione di una responsabilità penale degli internet providers».

Tuttavia, aggiunge il giudice milanese «questo procedimento penale costituisce, a parere di chi scrive, un importante segnale di avvicinamento ad un zona di pericolo per quel che concerne la responsabilità penale dei webmasters: non vi è dubbio che la travolgente velocità del progresso tecnico in materia consentirà prima o poi di ‘controllarè in modo sempre più stringente ed attento il caricamento dei dati da parte del gestore del sito web e l’esistenza di filtri preventivi sempre più raffinati obbligherà ad una maggiore responsabilità di chi si troverà ad operare in presenza degli stessi. In questo caso la costruzione della responsabilità penale (colposa o dolosa che sia) per omesso controllo avrà gioco più facile di quanto non
sia stato nel momento attuale».

Sul tema del controllo in ‘retè ci vuole una legge. Lo afferma in sentenza anche Oscar Magi che si dice «in attesa di una ‘buona leggè sull’argomento:
internet è stato e continuerà ad essere un formidabile strumento di comunicazione tra le persone e, dove c’è libertà di comunicazione c’è complessivamente più libertà, intesa come veicolo di conoscenza e cultura, di consapevolezza e di scelta, ma ogni esercizio del diritto collegato alla libertà non può essere assoluto, pena il suo decadimento in arbitrio».

Tutte le accuse e le polemiche che si erano accese in ‘difesà di internet dopo la condanna dei tre manager di Goggle, quindi, vengono liquidati dal giudice con il titolo di una famosa commedia di Shakespeare ‘Too much ado about nothing’, tanto rumore per nulla.
Anche perchè, nel caso specifico, Oscar Magi ha ricostruito come Google Italia trattasse «i dati contenuti nel video caricati sulla piattaforma di Google Video e ne era quindi responsabile perlomeno ai fini della legge sulla privacy». Senza contare che «l’informativa sulla privacy -ha aggiunto- era del tutto carente o comunque talmente nascosta nelle condizioni generali di contratto da risultare assolutamente inefficace per i fini previsti dalla legge».

Quanto al tema dello sfruttamento commerciale «non è la scritta su un muro -spiega il giudice- che costituisce il reato per il proprietario del muro ma il suo sfruttamento commerciale può esserlo, indeterminati casi e in presenza di determinate cisrcostanze». E in questo caso «il fine di profitto era evidetemente ricollegabile alla interazione commerciale ed operativa esistente tra Goggle Italia e Google Video. Interazione derivante dalla operatività del sistema Ad Words e dal collegamento esistente tra le parole chive utilizzate in quest’ultimo ed il sito web ospitante i video».