Trasfusione di sangue infetto, paziente risarcito dopo 46 anni

13/05/2014 di
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Aveva 31 anni quando nel 1968 venne trasfuso al Goretti di Latina. Oggi che ne ha 77 dovrebbe essere “felice” di incassare i circa 200mila euro che riceverà dal Ministero della Salute condannato  a risarcirlo per non aver controllato le donazioni e le trasfusioni di quel lontano dicembre 1968.

Non è tuttavia la vittoria economica che interessa ad A.P. di Latina visto che, dopo l’infezione quando aveva 31 anni, ha trascorso i restanti 46 anni della sua vita fra sofferenze e disagi personali acuiti quando nel 1997 scopriva di essere stato infettato. Al di là della straziante vicenda personale (e del fatto che era entrato al Goretti di Latina per curarsi e invece è stato contagiato da un virus letale) quella di A.P. è una vicenda giudiziaria che apre le porte a nuovi scenari a favore dei danneggiati da emotrasfusioni.

A parte pochissime sentenze sul territorio nazionale quella di oggi è una novità assoluta perché apre letteralmente le porte al risarcimento a quei pazienti che hanno ricevuto trasfusioni anche prima del cd. “scandalo del sangue infetto” che riguarda i prima anni ’70 fino a metà degli anni ’90. Le trasfusioni degli anni ’60 infatti non erano ancora state contemplate nelle condanne dei giudici come “non controllate” dagli ospedali locali allora a diretta dipendenza dell’Usl e dello Stato (nel caso l’ospedale S.M. Goretti di Latina).

Infatti solo nel 1978 venne scoperto il test per rilevare l’epatite B, nel 1985 quello dell’HIV e nel 1989 quello dell’epatite C e pertanto, in base a questo ragionamento, il S.M. Goretti e per esso in via gerarchica il Ministero della Sanità, non sarebbe responsabile per non aver rilevato (poiché non poteva rilevare) nel 1968 il virus dell’epatite B e C al paziente A.P.
Diversamente è stata accolta la tesi difensiva dell’avvocato Renato Mattarelli a cui A.P si è rivolto e secondo cui il Goretti e il Ministero della Salute non andavano condannati per quello che effettivamente non potevano testare sulla donazione e trasfusione di sangue a A.P. nel 1968 ma su quello che avrebbero comunque fare per evitare o ridurre il contagio; come ad esempio evitare dalla persone a rischio (tossici, prostitute, soggetti a promiscuità sessuale, soggetti epatici, ecc.)
Su questa linea, questo è quanto ha stabilito oggi il Tribunale di Roma (2^ sezione, Giudice Dott. Scalia, con sentenza n. 10448/2014 del 13.05.14) a conclusione di un articolato e difficile processo iniziato dallo studio legale Mattarelli-Mezzini nel 2009 e che ha rischiato, in più fasi, di essere dichiarato prescritto essendo trascorsi quasi 50 anni dalle trasfusioni e quasi 20 dalla scoperta dell’infezione epatica di A.P.