Damasco 2, parla Carmelo Tripodo. Smentite le minacce al giudice Aielli

10/06/2011 di
aielli-lucia

«Le colpe dei padri cadono sempre sui figli, e noi paghiamo per il cognome che portiamo». Nel processo Damasco 2 sulla mafia a Fondi parla Carmelo Tripodo il quale lamenta un pregiudizio per il cognome del padre, capoclan calabrese.  «Negli anni Settanta ci trasferimmo dalla Calabria a Fondi perché mio padre aveva il soggiorno obbligato. Poi nel 1982 ho aperto una rivendita di auto e nel 1991 la Net Service, società di servizi».

Proprio sugli appalti ottenuti dalle società legate a Tripodo si concentrano le accuse della Procura, ma lui nega tutto. «Abbiamo sempre operato in maniera limpida, lavorando non solo per il Comune di Fondi ma anche per molti altri enti. Qualche esempio? Il commissariato di polizia che ci affidò la pulizia di una scena del crimine, ma anche la Forestale, il ministero degli Esteri e la Procura di Latina».

Sui pentiti che lo accusano indicandolo come il collegamento tra la malavita fondana e i clan della Calabria, lui risponde: «Molti hanno detto che a Fondi comandavano i Tripodo e poi hanno spiegato di non conoscermi neanche, questo dimostra ciò che ho detto prima: conta solo il nostro cognome e ciò che rappresenta». L’avvocato Mastrobattista ha illustrato un elenco delle assoluzioni ottenute da Tripodo in altri procedimenti penali, poi si è tornati a parlare delle attività imprenditoriali. «Con il Comune di Fondi – ha spiegato Tripodo – l’ultimo lavoro risale alla fine del 2006 e fu fatturato nel gennaio 2007. Si trattò di una disinfestazione. Ma noi lavoravamo con molti altri clienti in tutto il Lazio».

In apertura dell’udienza alcuni avvocati della difesa, tra i quali Giuseppe Lauretti, hanno chiesto delucidazioni su una notizia riportata da un giornale locale su presunte minacce al giudice Aielli sulle quali indagherebbe la Procura di Perugia. Secca la smentita del magistrato: «Non esistono procedimenti di alcun genere, il processo può andare avanti».