Trasfusione di sangue infetto, donna di Sezze sarà risarcita con 360.000 euro

12/05/2016 di
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sangue infettoConfermata in appello la sentenza con cui il tribunale di Roma aveva condannato nel 2011 il Ministero della Salute a risarcire con 360.000 euro una donna trasfusa nel 1975 presso l’ospedale di Sezze quando aveva 31 anni. La causa iniziata nel 2008 si era conclusa nel 2011 con il riconoscimento del maxi risarcimento poiché il sangue somministrato alla donna venne accertato essere infetto da epatite C.

Il Ministero si era appellato alla prescrizione del diritto al risarcimento, alla buon uso del sangue da parte dei sanitari del PO di Sezze e al consenso della donna alle trasfusioni. Accogliendo la difese dell’avvocato Renato Mattarelli la Corte di Appello di Roma ha invece confermato la decisione del primo grado poiché la donna di Sezze, come molti altri pazienti pontini, non avevano avuto conoscenza del contagio se non dopo decine di anni, visto che l’epatite C è una malattia che si manifesta, spesso senza sintomi, anche dopo 30 anni dal contagio.

La Corte di Appello, con sentenza n. 2969 dell’11 maggio 2016, ha ribadito che durante il ricovero del 1975 presso l’ospedale di Sezze non vennero effettuati i dovuti controlli sulle sacche di sangue trasfuse alla donna e che se anche all’epoca non era stato reso obbligatorio il test di rilevamento dell’epatite C sulle donazioni di sangue (poiché inventato solo nel 1989) i sanitari di Sezze avrebbero potuto evitare il contagio alla donna con strumenti indiretti (termotrattamento del sangue donato per inattivazione di eventuali virus, oppure esclusione delle sacche ricevute per presenza di enzimi rilevatori di epatiti).

La sentenza che ha confermato la condanna del Ministero della Salute per la condotta dei sanitari di Sezze ha evidenziato che non poteva non essere noto alla comunità scientifica e medica, compresa quella dell’ospedale pontino, che a cavallo dell’epoca delle trasfusioni alla donna di Sezze del 1975, vennero pubblicati fra 1965 e il 1983 cinquantadue articoli di studi che informavano i medici dei rischi infettivi epatici delle trasfusioni di sangue.
Evidentemente, le conclusioni sono due: nel trasfondere la donna o i sanitari di Sezze hanno disatteso queste informazioni che avevano a disposizione o non le conoscevano. Entrambe le ipotesi non potevano non portare il Tribunale prima e la Corte di Appello di Roma a condannare il Ministero della Salute che sull’attività trasfusionale, anche quella di Sezze, doveva controllarne qualità e adeguatezza.